lunedì 16 maggio 2016

Assertività

E niente, non è che ogni volta succedano cose eclatanti. La solita routine. Lavoro, palestra, libri, serie tv; sonno – poco – e si ricomincia. Ritmi spersonalizzanti. Ma c'è sempre un granello di sabbia, a oliare l'ingranaggio.
Nel caso in questione, un cartello. Al collo di una donna texturizzata dalle rughe, seduta per terra tutti i giorni alla fermata della metro.
“HO-FAME”.

Sempre la stessa scritta. Majuscola. Con un trattino in mezzo, su un cartone grigio a vernice rossa. Tremolante. Per la scarsa dimestichezza col pennello, o con la scrittura in generale? Chissà che emozione, nello scriverla. L'esordio nella produttività. Due parole e la loro magia, inflazionate pozioni del senso di colpa occidentale. Su quale monte sinai saranno state rivelate? Da chi, poi? Un mendicante più esperto? Si sarà fatto pagare, per il suo suggerimento? E quanto? E come?

Un giorno mi chiedevo: perché non far leva su bambini o anziani a casa, opportunamente denutriti. Perché non indicare lo scenario di provenienza, causa di buchi allo stomaco così puntuali. O magari, produrre uno stato di salute inabilitante al lavoro. Per non disperdere il contenuto? Un copywriter  e un prete approverebbero. La sintesi è potenza.

Il giorno dopo mi venivano in mente altri questuanti. La famiglia barbuta al capolinea. Nonno barbuto. Padre barbuto. Mamma barbuta, prole barbuta. Tutti dimentichi della loro stampella, legata allo zaino, mentre corrono dal treno regionale per non perdere la coincidenza colla metro, da cui sciamare poi in ogni zona del centro. Gli amputati, seccati dal dover chiedere esplicitamente un obolo nonostante l'evidenza dei loro moncherini. L'africano, che saluta colla mano ogni passante per meritarsi la parcella. Di costui mi ha sempre stupito l'originalità. Perché quella donna non parlava, non guardava, non si allacciava un bimbo in spalla, non recitava copioni? Una supponenza quasi fastidiosa. Sono in tanti ad avere fame. A guadagnarsi la pagnotta, molti meno.

Poi, c'era il cartello. Su un altro avevo letto: “OPERATO DI PIEDI – POCHI SPICI PER MANGEAR”. Trapelava una vicissitudine. Al suo latore avevano evidentemente diagnosticato I Piedi. Eppure eccoli lì, normalmente deambulanti. L'esotismo di quel mangear faceva pensare alla succulenza di manghi e cocchi, consumati in un capanno sulla spiaggia. 'Ho fame'. Tutti i giorni. Un po' pochino, non trovi? Non è originale granché. Dov'è l'empatia, dove l'affabulazione, dov'è il dramma? Un messaggio in bottiglia si perde, in un mare di altri naufraghi.

Altri giorni fantasticavo su come sarebbe stato uscire dalla stazione con scritto “PERCHÉ-NON-PROVI-A-MANGIARE”. Oppure, “IO-ANCORA-NO-FORSE-PIU'-TARDI”, o ancora “QUESTO-È-VERME-SOLITARIO”. So che non è carino, ma ci vuole poco a impermalirsi, se stai sempre in ritardo. E poi che vuoi, ridere delle cose mi è sempre sembrato il modo migliore per non impazzire. D'altronde poteva aver ragione lei, la texturizzata. Non c'è niente di male a informare il mondo sulle proprie condizioni. In fondo lei mica chiedeva niente. Uno poteva scriversi su “CHE-SONNO”. Un barista, “ALTRI-10-CAFFÉ-E-IMPAZZISCO”. "PORTO-MUTANDINE-DI-PIZZO-SOTTO-QUESTI-ABITI-DA-MARINAIO". O magari, una signora: “STO-TRATTENENDO-UNA-SCUREGGIA-FORTISSIMA-PERCHÉ-MI-VERGOGNO”. Sarebbe bello, essere così didascalici. Siamo o non siamo nella società dell'apparire?

A un certo punto, l'intuizione.
Io non ho cartelli. Troppa personalità. Anche se ne portassi uno, il più delle volte non saprei cosa scriverci. Non so neanche cosa mi va di mangiare la sera. Non mi chiedo mai niente; è tecnicamente impossibile che io trovi risposte. Io non mi cago mai. Quella donna, invece. Il suo problema l'ha ben capito: HA-FAME. Io il mio ancora no.
È assurdo sfrecciarle davanti con aria di superiorità. Faccio un uso smodato dei miei doveri. Mi dico a voce alta 'Devo dimagrire'. 'Devo pulire casa'. 'Devo dormire di più'. 'Devo cercare di essere più puntuale'. Mai un Vorrei, neanche per educazione, neanche per sbaglio. Maschero i miei disappunti. Sono accondiscendente finché reggo, poi giudico, critico, aggredisco. E scompaio: puff. Non riesco a credere di avere diritti.

Ma adesso basta. Eccomi qui, su una panchina. Sul rettangolo di plexiglass che indosso sopra la mia camicia migliore ho fatto incidere: “Vorrei tanto fare l'amore”, scartando tutta una serie di asserzioni più prosaiche (“FATEMI-SCOPARE”, “ME-MANCA-L'INTINTA”, “VOJO FICCA' ”, acrilico su cartone ondulato, 2016). Conto di risolvere a breve i grandi nodi della vita. Vedo già spuntare i primi sorrisi.



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