domenica 21 dicembre 2014

Allusioni ottiche




















La gente fa battute che non fanno ridere. Eppure ride.

Dice sempre le stesse cose. Sostiene opinioni di seconda mano, con enfasi da programma televisivo. Vive vite, in effetti, più difficili da mandare giù di qualsiasi fiction.
Crede di avere dei problemi, e invece ne ha altri. Desidera cose contrastanti e inarrivabili. Non asseconda i propri interessi. Anzi, se li lascia atrofizzare da suggerimenti esterni, generatori di profitto altrui. Da qualche parte deve nascondersi qualcuno, struttura o individuo, che di tali marionette muove i fili.

Questo la gente lo sa benissimo. Mica la freghi, la gente. Tu organizzagli una fila alle poste il sabato mattina, o un convoglio ferroviario bello pieno, con l'aria condizionata che non funziona. Vedrai quante gliene dice, ai suoi burattinai. Ma dopo lo sfogo dimentica l'azione. Le scie chimiche hanno inibito i centri nervosi. Decenni di irrorazioni hanno prodotto frutti ormai maturi. 

I cartelloni pubblicitari sfoggiano seni perfetti, carnagioni abbronzate, mandibole quadrate. La gente cerca invano questi dettagli nel proprio partner. Nei teleschermi sfilano magrezze impossibili. Sulle riviste i cronografi scandiscono il loro tempo senza sconti, e le macchine sfrecciano patinate di pagina in pagina. I vestiti sono costumi di scena. I cellulari, l'unico mondo che valga la pena abitare.

I grandi valori li hanno accaparrati da tempo. Non ce n'è più uno libero. L'ultimo se l'è preso quel partito politico che, per una brutta storia di tangenti, ha dovuto cambiare nome per penitenza.

I politici basano le campagne elettorali sulla lotta alla piccola criminalità e sulla paura dello straniero. Una volta al potere, lucrano su campi nomadi e centri di prima accoglienza. I controllori stampano biglietti falsi. I lavori pubblici durano e costano dieci volte tanto, ingrassando cortigiani al limite del malavitoso. I terremoti generano indotti illeciti. Come pure le alluvioni, cui viene sempre assegnato un nome.  Per gratitudine, con tenerezza.

La gente invidia chi sta meglio. Controllori e politici. Chiunque sia più forte, più potente, più ricco, più bello, più pronto nelle risposte. Ma le scottanti rivelazioni dei giornali scandalistici ne rivelano le miserie, e tutto si ridimensiona. D'altra parte nessuno sta mai troppo bene. C'è sempre qualcuno più in alto, da invidiare. E se manca, c'è il rischio di capitombolare verso il basso. Rispuntano i sorrisi, ci si sente migliori. Si torna a votarli, abbracciando faziosità di stampo calcistico ereditate da  amici e parenti. Senza notare che almeno i tifosi hanno azioni da commentare, belle giocate e preziosismi tecnici, gol realizzati o errori arbitrali che non li hanno assegnati. Ai votanti per scaldarsi bastano le tribune elettorali.

Fatti salvi alcuni campioni di mimetismo, e alcune uova deposte in nidiate non pertinenti, in natura l'unico animale che pensa per tutto il giorno a camuffarsi è la gente. Maschera la propria autenticità e le proprie voglie, perché è très chic. Vive nell'adulterio del proprio sé, e chiama 'bestie' esseri colpevoli di vivere serenamente i propri bisogni. Nasconde la fame, sorvola sulla sazietà, glissa sul desiderio di copulare ma in realtà non pensa ad altro. Sonda le debolezze del prossimo con pseudoumorismi gratuiti, per ingranare frettolose marce indietro davanti a una mala parata. Copre zanne e ritrae artigli, negando con sdegno ogni istinto aggressivo. Invece di sfogarlo per pochi attimi e poi rilassarsi, lo cela nelle contraffazioni nei social network, lasciandolo trapelare a ogni istante.

Chi va a vedere mostre, guarda film o legge libri, lo fa per moda. Gli intellettuali consultano oroscopi. Si sopporta la periodicità degli scioperi. Ci si lascia addomesticare dalla serialità di sport recitati. Siti di e-commerce e catene di santantonio violano le caselle di posta. Le orecchie si abituano ad avere rumore per sottofondo, mentre in TV scorrono caroselli di adesivi per dentiera. All'ora di cena, naturalmente.

I cervelli vanno in poltiglia. Si vive un breve momento di forma. Ineccepibile, lo si riconosce a posteriori dalle foto. Prima e dopo ci si piscia addosso, si articolano male le parole, si ride quando si dovrebbe piangere e si piange quando sarebbe opportuno ridere. La piena maturazione è stata un attimo. Una breve stagione di bellezza, vigore mentale, funzionalità fisica, e rien ne va plus. L'unico culmine a cui si arriva e da cui ci si allontana con due salite, entrambe impervie e interminabili, ma a ben vedere cortissime, il cui demiurgo sarà senz'altro un Maestro delle allusioni ottiche.

Forse più coscienza aiuterebbe. Ma non troppa, che un eccesso di lucidità potrebbe rivelarsi fatale.
Quindi tutto funziona alla perfezione.

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“Bene bene bene”, esclamò Mangiafuoco, sfregandosi le mani. “Ancora un po' di esercizio e il mio teatrino mi renderà un bel mucchio di quattrini. È la volta buona che riesco a emigrare da 'sto mortorio di Iperuranio”.



domenica 9 novembre 2014

Rinofobia















C'era una volta un tizio che non sopportava di vedersi sempre tra gli occhi il naso.
Il suo nome era Mynus Habens. 'Mynus' per gli amici, se ne avesse avuti. Il suo campo visivo variava, di volta in volta. Cose più o meno piacevoli. Ma al centro sempre la stessa. Il naso.

Poteva vederne i due lati a seconda dell'occhio che chiudeva. Quando era il sinistro vedeva il neo che aveva sul lato destro. Sul lato sinistro invece non c'era nulla di rilevante.
Queste operazioni le faceva di rado, e affannosamente. A farle troppo spesso rischiava d'impazzire. Poteva vedere varie cose, della sua faccia. I baffi. Il labbro superiore, e quello inferiore. Parlo chiaramente di un'ispezione senza specchi. La lingua. Il mento invece no. Niente mento. E la punta del naso.
Il resto del naso era solo un'ombra. Ma perenne. Era questo a essere inaccettabile. Parlavi con qualcuno, e l'ombra del tuo naso si metteva in mezzo. Guardavi un film, e la fotografia doveva fare i conti con sempre la stessa macchia sfumata, al centro della scena. Leggevi un libro, e tra le pagine c'era sempre lo stesso ectoplasma.

La fortuna era che il più delle volte non ci faceva caso. Quando ciò avveniva, non poteva tollerarlo. Non riusciva a respirare. Se era sdraiato nel suo letto, doveva tirarsi su col busto di scatto bestemmiando, e fare almeno un respiro totalmente profondo. Se non era nel suo, di letto, la cosa era più imbarazzante. Succedeva così. Il fiato gli mancava  di colpo. La riscoperta del naso gli cortocircuitava i polmoni. L'aria finiva all'istante. Era strano. Gli sembrava di ricordare che da piccolo riusciva a stare con la testa sott'acqua per più di un minuto. Non che gli piacesse molto farlo. Non aveva mai sopportato le costrizioni, fisiche o psicologiche. Postumi di un'educazione repressiva. Provava l'apnea per gareggiare cogli altri bambini, e da grande per immergersi sott'acqua quando faceva il bagno. Era come volare. La sensazione di libertà compensava la claustrofobia di avere masse d'acqua sempre più grandi tra il respiro e la sua possibilità.

Un'altra cosa che andava bene, quando il naso tornava ad imporsi alla sua attenzione, era una corsa forsennata. Uno scatto improvviso, possibilmente all'aperto. Il cuore che batteva all'impazzata e il fiato mozzato lo distraevano. Anche guardare il cielo andava bene. Verificare che c'era almeno una via d'uscita, infinitamente vasta. Quel cazzo di naso. Poteva tagliarselo, non credere che non ci avesse pensato. Ma purtroppo era sano di mente. Era chiaro che avrebbe introdotto problemi più grandi. Per esempio, la luce poteva riflettersi all'interno della cavità nasale e accecarlo col suo riverbero. Oppure, avrebbe avuto addosso gli sguardi più o meno indiscreti della gente. Hai mai visto le facce della gente? Sono brutte. Mynus ci faceva caso spesso, ma di solito si fermava prima di arrivare a pensare che tecnicamente era gente pure lui. Poteva esserci qualche crema che gli offuscasse i contorni del naso? Probabilmente no. I colori riflettono la luce, come il bianco. O come il nero la assorbono. Tinture trasparenti non sono ancora state inventate.

Il problema poteva accrescersi. Con la stessa logica, allora, poteva sicuramente vedersi le palpebre. L'interno, intendo. Non avrebbe mai visto nessun'altra palpebra dall'interno. O magari sì, se avesse adottato soluzioni da maniaco seriale. Ma era troppo normale, per infilarsi in vicoli ciechi dalle conseguenze più problematiche che vantaggiose. Per non parlare delle implicazioni etiche.
Allora faceva caso anche alle palpebre. Cercava di capirne il colore. Erano pensieri che non potevano durare più di mezzo secondo. Oltre, c'era la morte per soffocamento.

Aveva ipotizzato un color carne particolarmente rosso e sanguinolento, come quando cerchi col fazzoletto di tirarti fuori un ciglio dall'occhio. Poi si era ricordato che nessun colore si può vedere al buio. Quindi aveva accantonato il problema delle palpebre con un certo sollievo, per tornare a occuparsi di quello del naso.

Il naso era un organo che faceva senso. In tutti i sensi. Impossibile tagliarselo. 'Come farà chi ha il naso aquilino?', si domandava. Il suo era retto. Un bel naso, dicevano. Forse era fortunato chi ne aveva uno rincagnato, da pugile. Doveva essere un sollievo, poter fissare in eterno un ectoplasma di dimensioni più discrete. Forse non si vedeva per niente.
Ma anche un puntino sarebbe stato sufficiente per impazzire.

Le palpebre erano più simpatiche. Ma celavano altre insidie.
Hai presente quando ti stendi al mare, e finalmente ti rilassi? Cioè, tu vorresti rilassarti. Poi, gli occhi che hai chiuso tornano a vedere. Cellule. Maledette. Sono capelli, sembrano capelli. La lunghezza è maggiore dello spessore. In mezzo c'è un punto. Non può che essere il nucleo di quelle cellule. Se butti gli occhi in su, le cellule schizzano in alto. O in basso. O di lato. Non puoi mai spegnere il proiettore. L'unico modo di farle sparire è aprire gli occhi, e riarrotolare lo schermo. Ma certe volte continui a vederle anche controluce, e allora anche lì l'unica è alzarsi di scatto, buttarsi in acqua e sperare di finire addosso a qualche medusa.

Ma niente è insidioso quanto il naso. Ogni tanto Mynus andava allo specchio a guardarselo.
Ecco là il neo, sulla parte destra. O era la sinistra? Doveva pensare alla sua, di destra, o a quella del tizio che aveva di fronte? Quello, se si fosse distolto dal guardarlo fisso, si sarebbe girato portandosi appresso il neo sulla sinistra. Misteri troppo grandi, per venirne a capo.

Non c'era solo l'ombra del naso. Per esempio, nessuno sembrava mai far caso alla morte. La propria, intendo. Sempre quella degli altri, e solo quando non se ne potesse fare a meno. Mynus invece era assolutamente preso dalla sua morte. L'unica discrezione che lei gli usava, era non venirgli in mente in continuazione. Era meno presenzialista di certi nasi. Quando Mynus pensava alla sua morte, non riusciva a vedere altro. Perché radersi o lavarsi, perché studiare o lavorare, se non per lo stretto indispensabile? A che pro amare, odiare, indignarsi o primeggiare?

Mynus allora si guardava intorno. Non aveva mai visto nessuno tanto ignorante da ignorare una cosa così. Nessuno sembrava pensare alla propria morte. Tutti sarebbero morti. Nessuno sembrava turbato dalla comparsa nel campo visivo del proprio naso. Possibile che fossero così distratti? O sapevano qualcosa che Mynus ignorava? Qualche trucco, o qualche informazione supplementare?

Secondo Mynus, era impossibile essere così ignoranti. Della propria morte, e di quelle altrui. Troppe cose si facevano tutti i giorni, completamente falsate dal non tener conto della morte di ciascuno.
Mynus aveva una teoria. Ognuno dovrebbe aver su un numero. Chi 65, chi 21, chi 84. Metti che due si prendono colla macchina a un incrocio. Senza quel numero, è subito un gran litigare su chi abbia la precedenza. Con quei numeri, invece, 84 sarebbe molto più conciliante con 65. “Mi dispiace di essere passato proprio in quel momento” - “Ma no, cosa dice, colpa mia che non ho visto il rosso” - “Beh, poco male, tanto la macchina è vecchia, non sarà un graffio a cambiare le cose”.
Invece, tutti litigavano. Anche senza motivo. Tutti in competizione, tutti contro tutti. I furbi contro gli etici. I forti contro i deboli. I poveri contro i ricchi. Scordandosi quotidianamente le proprie morti si perdeva regolarmente la prospettiva.

Ma era meglio che il numero indicasse l'età della propria morte, o gli anni che rimanevano da vivere?
Mynus aveva riflettuto, al riguardo. Avere addosso gli anni mancanti richiedeva aggiornamenti annuali e scomodi. L'evidenza sarebbe stata inelegante. Meglio segnalare l'ultimo compleanno, lasciando agli astanti il beneficio del dubbio, a seconda di quanto uno si portasse più o meno bene gli anni.
Mynus aveva sempre un sacco di buone idee, quando non gli veniva in mente il naso. O forse era proprio il naso, colla sua impertinenza, a impedirgli di distrarsi. Di perdersi in frivolezze. Non era il caso, per esempio, di lanciarsi in avventure sentimentali. Ci pensi? “Ehy bambola, è tutta la sera che ho voglia di baciarti” - quando all'improvviso ecco frapporsi il naso. Il giorno dopo, tutti avrebbero parlato dello scatto furioso di Mynus. E a Mynus avrebbe dato fastidio.

Non so. Non era un mondo adatto. Mynus avrebbe trovato ragionevole vivere in un posto dove un terzo degli abitanti per volta si lanciasse in scatti forsennati in direzioni varie, non appena resosi conto del naso. Un mondo in cui fosse normale sedersi e fissare il terreno senza sorprendere i passanti. Sentendoli al limite commentare “Eh, gli è venuta in mente la sua morte, chissà quando ventura”. E invece non aveva mai sentito nessuno preoccuparsi del proprio naso, se non per il punto di vista altrui. Gli occhi delle persone non rilevavano cellule, o almeno nessuno sembrava preoccuparsene. E molti si tatuavano cose sulla schiena, o in altri punti dove non se li sarebbero mai visti da soli. Che orrore. L'unica cosa che, facendo uno sforzo enorme, lui si sarebbe tatuato, era da spalla a spalla, in caratteri gotici e scarsamente leggibili.
'Fesso chi legge'.

A un certo punto, nel vivo di quei ragionamenti, il naso smise di comparirgli. Fu quando Mynus scoprì il numero che avrebbe dovuto portare lui.

domenica 26 ottobre 2014

Il problema













era avere la ragazza. Era un bel problema.
All'inizio era bello. Grembiulini rosa vs grembiulini blu. Chiarezza dei ruoli. Per Faber Quisque i primi giochi erotici colle bambine dell'asilo arrivarono presto. E definitivi, per un bel po'.
Le prime avvisaglie del problema si manifestarono dopo poco. Alle elementari.
Quando si giocava, tutto andava bene. Macchinine, robot, nascondino. Perfino a pallone. Poi in Quinta alcuni genitori avevano avuto la pensata di mettere su della musica, per BALLARE. Niente giochi in cameretta, niente giochi in cortile. Adesso si era in ballo, e bisognava BALLARE. Gli altri bambini partirono subito, come se per entrare nella fase successiva non bisognasse che accendere un interruttore. Roba di istinti, cose così. Era incredibile. 'Come potete preferire il BALLARE al giocare?', dicevano gli occhi del piccolo Faber, carichi di rimprovero silenzioso. 'Nel giocare ci si diverte. È ovvio. Dovrebbe piacere anche a voi. È sempre stato così'. La risposta degli altri bambini, un'alzata di spalle. Come a dire, ' È vero, ma che ci possiamo fare?'. 'Porco dio' avrebbe pensato Faber, se avesse assaporato già da allora il gusto illusorio del Vilipendio.

Ma lo avrebbe conosciuto. Ancora qualche anno. Successivamente si iniziò a fare più sul serio. Alle medie passavano tra i banchi sciami di bigliettini. “Ti vuoi mettere con me?”. Casella , casella No. Si suggeriva implicitamente di barrare quella di proprio gradimento. Sarà stata la veste ufficiale - chi può resistere a una burocrazia ben formulata? Sembrava funzionare. Nascevano delle coppie. Partivano i primi baci.
Qualsiasi gioco per Faber era ancora da preferirsi.

Fu forse per la sua indole altezzosa e giocherellona, che per Faber fu sempre così difficile? Quella palestra poteva aiutare. Ma perché snaturarsi, se si preferiva altro? Alla fine, interessarsi alle ragazzine poteva ancora valere una presa in giro. Si era giustificati, ancora per un po'.

Invece al liceo c'era poco da ridere. Potevi non avere i vestiti giusti. Essere basso o sovrappeso. Avere la forfora o i brufoli. Magari non avevi neanche il motorino. Che sfortuna micidiale, quando il discorso-ragazze per tutti diventava interessante. Quindi via, si tirò fuori dai giochi. Quello che gli ci voleva era un compagno di banco che avesse pescato dalla sua rosa di problemi contingenti. Meglio non gli stessi. Sarebbe stato ridicolo.

Finito il liceo, lavorò sui suoi difetti. Cercava di affrontare le cose con logica, e non emotivamente. Anche se spesso per tante cose aveva intuito. Un ottimo intuito. Ma lo relegava nella sfera del Gioco. Certi difetti svanirono da soli. Altri richiesero sforzi non indifferenti. Forza Faber, ce la puoi fare. Basta avere volontà. Il fatto è che potresti non averne. Oppure, trovandola, ti ci metti con tanta intensità che alla fine perdi di vista il quadro. Continui a concentrarti sull'aspetto fisico. O sui vestiti, ai quali negli anni si aggiungono macchine e cellulari. Ti do una dritta, se sei ancora in tempo. Se metti a punto l'aspetto fisico, poi ti cercano per l'aspetto fisico. Se investi in un'automobile, entri in concorrenza con quelli che ne hanno sempre di migliori della tua. Per non parlare dei cellulari, più dozzinali e alla portata.
Nel tempo, con la sua logica stringente, Faber capì tante cose.

Ogni tanto faceva il punto della situazione. Mica da solo. Crescendo, si era scelto degli amici. Pochi. Ma accuratamente. Avevano in comune il suo problema: non avere una ragazza. Erano stati bassi o grassi, o brufolosi, forforati, malvestiti, timidi. Certo in quelle condizioni non puoi mica frequentare gli altri. Lo capisci subito. A Faber bastò accettare un invito una volta, e ritrovarsi unico a un tavolo di sole coppie. Il primo di innumerevoli minuti interminabili lo convinse ad autoghettizzarsi per molti anni a venire.
Si prese Al Terego. Era quello con cui chiacchierava meglio. Invece di studiare e passare gli esami all'università, progettavano gruppi musicali. Vacanze. Uscite. Concerti. Ci andava a mensa, a correre al parco, a comprare vestiti. Qualche volta addirittura a frequentare le lezioni. Sperando di incontrare ragazze ben disposte. Sono tutte buone idee, non possono che aiutare. Poi, a fine serata, facevano le ore piccole nel parcheggio del mercato, per parlare. Il tema era: ma come si fa ad avere la ragazza? Come si farà mai? Avevano sempre nuove idee, trovavano un sacco di spunti. Ci riflettevano su. I metronotte li guardavano con sospetto. Ogni tanto la polizia gli chiedeva i documenti. Ne avevano ben donde, la situazione suggeriva che come minimo si stessero facendo delle gran canne. Una volta Faber li aveva sentiti dire allontanandosi “Saranno froci”.
Ma perché dovete fare i coatti? Che razza di bestie ignoranti siete? Al mio amico qui GLI È MORTO IL PADRE!”.
Nessuno dei due pronunciò mai la seconda frase, naturalmente.

Stava sempre cinque o dieci anni indietro, Faber. 'Chissà se si vede, quando cammino per strada,' pensava, 'quanto cazzo sono solo'.
Provava tutto. Corsi di lingua, balli di gruppo, villaggi turistici frequentati da single. Aveva le sembianze dell'Uomo, ahah, che ridere. Ma era piccolo, piccolissimo. Da grande voleva fare quantomeno l'Astronauta, e nel frattempo qualsiasi altra cosa faceva parte del provvisorio. Ma fare l'Astronauta dà le nausee e le vertigini, e Faber aveva lo stomaco debole. Soprattutto, voleva ancora giocare. Certe risate si facevano, con Al.
Anche da solo, Faber sognava. Sognava in continuazione. Al suo risveglio le cose restavano quelle. Un lavoro. Le vacanze. La musica. Sempre le stesse persone. 'Se almeno facessi un'altra vita', pensava, 'conoscerei nuova gente'. Poi quando capitava, era lui a essere lo stesso. Sempre 5-10 anni dietro, spesso 5-10 anni avanti. La gente lo annoiava, lui annoiava la gente. Starne lontano era più divertente.

Alla fine l'Universo sfinito decise che anche la sua ora era giunta.
Nel senso buono, intendiamoci. Aveva già avuto qualche storiella, durata poco e abbastanza. Mica era malaccio. Aveva un fisico atletico e bei capelli. Una faccia tagliente ma interessante, come sono interessanti le cose irraggiungibili. Era meglio così, perché quando cercava di farsi raggiungere da qualcuna, evidentemente gli fiorivano sul viso espressioni scoraggianti. Ma si vestiva con un certo gusto, e la sua macchina e i suoi cellulari erano sempre almeno nella media.
Nella smania di ficcarsi nelle situazioni, Faber si era iscritto a una palestra di pugilato. Iniziò quasi subito a frequentare le cene del gruppo. A una di queste, un tizio occhialuto si era portato appresso una conoscente, che andava a un altra palestra. Era un po' sovrappeso. Sembrava avere un culo sul grosso, ma aveva la vita stretta. Quindi valeva anche avere il culone. Aveva anche un viso rassicurante, era importante essere rassicurati. E delle tette enormi. Gigantic tits. Entrambi soffrivano di gigantic tits. Faber era seduto da un'altra parte, ma poi a fine serata si era messo a chiacchierare con il tizio. Dopo qualche attimo eccoli lì, loro due soli, a fumare fuori dalla pizzeria. Lei si chiamava Sue Fortune.

“Così tu fai Karate, eh? Ma combatti, anche?”
“Sì, certo. Sono fortissima.”
“Ma sparring, o proprio combattimenti?”
“Combattimenti. Guarda i segni che ho sulle tibie. Tocca.”

Faber toccò, dimenticando all'istante tutti i suoi giochi. Non trovò nessun segno. Solo pelle, liscia e chiara.
Mentre la riaccompagnava a casa, qualcosa lo turbava. Aveva a che fare con il tizio occhialuto, e la poca classe con cui gli aveva sottratto la conoscente. “Ecco, parcheggia là, che qui non si trova mai un posto” disse Sue, facendogli dimenticare l'argomento su cui ragionava.

In macchina chiacchierarono molto. Lei era stata sposata, e aveva un figlio. Di cinque anni. Sembrava ferita da un abbandono, e ogni tanto il suo odio recente per il genere maschile trapelava. Però la sua faccia era rassicurante. Le sue tibie, segnate di segni invisibili. Le sue tette, gigantiche. Parlarono e parlarono. Spesso lui riusciva a farla ridere. Aveva un umorismo basato sull'essere serio e dire cose surreali. Faber si godeva tutto quel parlare. Ne aveva, di cose da dire. Ne aveva anche da ascoltare. Anche lui aveva qualche recriminazione, nei confronti dell'altro sesso. Quel ballare prima del tempo. Quel dismettere frettoloso i grembiulini segnaletici. Ogni sillaba era un ulteriore sintonia. Ma Faber immaginava che il ruolo di esploratore di faccende più concrete sarebbe toccato a lui.

Era un problema nel problema. Aveva una gran voglia di dire, ma anche di fare e baciare. Solo che non gli era mai stato chiaro come passare al secondo quadro. Come se per prepararsi a un incontro con Mike Tyson sapesse di dover mangiare uova sode a colazione, uscire presto per almeno un ora di corsa, saltare a corda, e a un certo punto andare direttamente al metterlo al tappeto.

Così il tempo passò, e alla fine era tardi.
Ti accompagno al portone.
È tardi. Sei sicuro?”
Mi sembra di sì.
Uscirono dalla macchina, arrivarono a un incrocio.
Dobbiamo attraversare. Dammi la manina.

Lei magicamente gliela diede. Era da un po' che Faber aveva la sensazione che per superare qualsiasi tabù bastasse decidere di farlo. Si avventurarono sulle strisce pedonali, lasciate sole dalla notte silenziosa.

Ma tu, davvero avresti attraversato senza darmi la manina?
Lei lo guardò incerta.
E se io fossi scappato per la strada, e una macchina mi avesse messo sotto, che avresti fatto? Andavi da mia madre, e le dicevi” - mise le mani a coppa, stendendo le braccia avanti - “Signora scusi, lei non mi conosce, il fatto è che mi è scappato suo figlio mentre attraversavamo la strada, mi dispiace tantissimo, gliel'ho riportato, eccolo.

Lei rideva sempre più, scordandosi di quanto quella manina condivisa fosse compromettente. Lui restava serio. Finirono di attraversare quella strada geniale.
A tua discolpa va detto che hai una manina molto soddisfacente. Ti dispiace se la tengo ancora un po'?

Chiaramente, niente di questo avvenne per davvero. Arrivati sotto casa, Faber la prese nervosamente tra le braccia e la baciò.
Si baciarono sotto il portone di Sue per almeno mezz'ora, finché lei dovette salire perché era in ritardo con la baby sitter.

Insomma, sai come vanno queste cose. No?
Si misero insieme. Dopo una lunga fase di studio, Rex, il bambino di Sue aveva deciso che Faber era simpatico. Non è che si sforzasse, Faber. Semplicemente gli parlava come avrebbe parlato con chiunque gli interessasse. Lo prendeva in giro spessissimo, non gli saltava neanche in mente di dover andarci piano, e usare prudenza per il suo fresco ruolo di figlio di genitori divorziati. Ci scherzava volentieri. Ad esempio, una volta Sue lo aveva rimproverato perché si succhiava sempre il pollice. Lui era lì col muso, e Faber gli aveva spiegato che i grandi non è che smettano davvero di succhiarsi il pollice. Imparano giusto a farlo quando nessun bambino li guarda, e con gli anni diventano bravissimi. “Ecco, guarda – anzi no, non ti girare mi raccomando - ascoltami attentamente. Quel signore dietro di te se lo sta succhiando per bene, si sente quasi il rumore che fa. È convinto che tu sia concentrato sul mio discorso e per un po' non ti girerai. Forse se ti giri di scatto fai in tempo a vederlo”. Mentre Faber finiva il suo discorso, la faccina sorpresa di Rex non ce la faceva più, e si girava. “Che ti dicevo? Bravissimi. E velocissimi.”
Tempo dopo, quando Faber tornò sul discorso lui gli disse serissimo “Ma la vogliamo fare finita con questa storia del succhiarsi il pollice di nascosto?”. E Faber se ne era innamorato. Era più difficile trovare giochi all'altezza. Lui, Rex, di Faber era innamorato già da un pezzo. Sembrava un'oasi, in mezzo a tanti Grandi interessati solo a farlo coprire bene e mangiare tutto ciò che aveva nel piatto.

Quindi Faber e Sue andavano forte. Fortissimo. Almeno a cento all'ora.
Ma sai quel che si dice a scuola sulla velocità. Difficile che cento chilometri all'ora possa essere una velocità costante. Più probabile una media, o una velocità istantanea. L'informazione che il tachimetro ti restituisce solo in un dato momento. Sue e Faber toccavano picchi anche superiori. Ma era impossibile partire a cento all'ora. Per farlo, sarebbe occorsa un'accelerazione infinita. E anche con l'aiuto delle gigantic tits di Sue, se ben ricordi Faber fin dall'inizio non aveva osato condividere i suoi giochi surreali. Non tutti, almeno. Era anche impossibile arrivare mantenendo la loro velocità di crociera inalterata. Cioè, in fin dei conti quello era possibile. Bastava trovare un muro sulla propria strada, e andarcisi a schiantare contro.

Quel muro lo trovarono d'estate. Rex era in campeggio cogli scout. Faber e Sue potevano concedersi le prime vacanze da soli.
I problemi cominciarono subito. Il posto scelto era troppo lontano, se fosse successo qualcosa. O troppo vicino per staccare veramente. Troppo costoso o troppo economico. Troppo freddo o troppo caldo. Troppo montuoso o troppo pianeggiante.
La logica di Faber rimise in funzione le vecchie rotelle. C'era qualcosa che non andava. All'ennesima discussione, interruppe gli strilli di Sue bloccandola contro il muro. “Ti stai comportando irrazionalmente, renditi conto. Nessun problema è il vero problema. Tu non vuoi concederti libertà. Non vuoi regalarti e regalarci spensieratezza. Che invece è l'unica cosa che serve. Falla finita coi sensi di colpa, falla finita col farci soffrire. Va tutto bene, per com'è andata. Ora il ragazzo sta imparando a divertirsi anche da solo, ed è ora che impariamo a farlo anche noi.”

Sue non ascoltava nessuna delle frasi di Faber. Era assediata. Da una parte il muro, alto e inespugnabile. Dall'altra le braccia nervose di Faber, e una logica claustrofobica e fredda. “Lasciami stare”. “Non sopporto di essere chiusa in trappola”. “Se non mi lasci andare immediatamente sono cazzi tuoi”.

Più di una volta, scherzando ma non troppo, Sue aveva sfidato Faber a combattere. Si sentiva forte, più di quanto fosse quando l'ex marito l'aveva abbandonata con un figlio a carico. Era forte anche grazie a Faber. Da quando aveva iniziato karate sentiva di poter picchiare chiunque. Di certo era più pesante di Faber. Ancora più sicuramente, lui era più forte di lei. Non erano quei quattro calci che aveva imparato a dare ai suoi conoscenti occhialuti a poterla aiutare, a quella breve distanza. Soprattutto se intrappolata tra muro e braccia. Ed era meno forte di lui, non solo fisicamente.

In un lampo fu chiaro che colla testa non ne sarebbe uscito. Vedeva negli occhi di Sue la paura dell'animale in trappola. Contemporaneamente, sentiva la rabbia crescergli in petto. Aveva aspettato tanto. Gli anni migliori erano passati. Ora che finalmente tutto poteva andare bene, si scontravano su ostacoli di un'inesistenza insormontabile.
Era investito dalla paura bollente di Sue, che le usciva a fiotti dalle labbra carnose. Sentiva fremergli contro le gigantic tits. Focolai di calore gli scesero dal cervello al basso ventre.

Negli stessi istanti, gli istinti di Sue avevano deciso che era troppo. Le avevano fatto alzare le braccia, fra un attimo le avrebbe abbassate per provare a picchiarlo come fanno i pupazzi a molla e i bambini. Cioè dall'alto verso il basso, scoprendosi la guardia ed esponendosi a un peggio che fra bambini e pupazzi a molla per fortuna avviene raramente. I suoi impulsi le avevano fatto dimenticare ogni tecnica.

Faber le afferrò i palmi con una mano. La bloccò, intrecciando le dita con le sue. Lei aveva le braccia forti, e l'avere ufficialmente aperto i combattimenti le conferiva forze nuove.
In un attimo, Faber le prese il culone con l'altra mano. Lo strinse a sé, salendo sulla vita. Gli occhi di Sue persero il terrore animale, in favore di un nuovo stupore.
Lui le avvicinò le labbra alla bocca. Se l'avesse fatto prima, i denti di Sue gliele avrebbero lacerate. Le premette contro le sue, infilandole dentro la lingua. Nel frattempo le dita della mano libera le scivolavano nelle mutandine. Poteva sentire la forza nelle braccia di Sue illanguidirsi, e sciogliersi verso il basso. Stringendola a sé, le infilò tutto l'indice nel buco del culo. Se ti stessi chiedendo se stavolta fece veramente una cosa del genere, la risposta è sì. Lo fece sul serio. Tutto il dannato indice su per quel bel culone.

Fu la più bella scopata della loro vita. Un combattimento così cruento che il letto rischiava di essere un tatami troppo fragile. Lottarono contro paure, mostri, passato e futuro. Esistevano solo loro, in un presente eterno. Animali selvaggi. Piangevano e ridevano, si sbranavano e si baciavano. Attimi dopo, Faber si sarebbe stupito di quanto per un momento era stato labile il loro equilibrio. Come ricordandosi di un orrido altissimo su cui era stato così incosciente da affacciarsi. Gli venivano i brividi al pensiero che potevano finire sui giornali locali in cronaca nera.
Riteneva ancora impossibile poterne uscire ragionandoci su. Aveva avuto una buona intuizione. Tutto qui. Ripensò alle volte che aveva affrontato le cose colla testa, invece della pancia. Gli sembrò di aver odorato cogli occhi, o ascoltato col naso. In quelle circostanze, aveva avuto sempre ragione lui. Tranne le volte in cui aveva torto. Ma farlo notare non era servito a niente. Mai, in nessun caso.
Sarebbe riuscito d'ora in avanti a osservarsi i problemi da altre angolazioni? Ad abbandonare la logica sequenziale? È possibile accogliere l'impulso innaturale di spostarsi il punto di vista dal centro degli occhi?

Mentre guidava andando in vacanza, Sue cantava le canzoni che passavano alla radio.
Il Problema era passato a uno stadio più avanzato. Decise, d'ora in poi, di fidarsi di più del suo istinto. 





lunedì 22 settembre 2014

Il peggiore amico dell'uomo
















Stavo al pc a giocare a Spider, quando nella stanza si levò un sospiro. Era il dannato sacco di pulci.

Non c'era da sbagliarsi. Coi suoi sospiri il bastardo voleva dire: 'Che inizi a fare un'altra partita, se quando sbagli fai CTRL+Z? Lo Spider di XP almeno faceva annullare solo fino all'ultimo cambio di carte, e qualche volta si poteva perdere. Con Windows 7 puoi tornare indietro fino all'inizio. Si vince sempre. C'è solo un piccolo contatore di mosse in basso a destra, a segnalare l'imbroglio'.

Il bastardo aveva ragione. Ho una percentuale di vittorie del 100%. Ma se i programmatori hanno lasciato la possibilità di annullare, perché mai non dovrei servirmene? Perché 'non vale'? Ma che vuol dire 'non vale', se nessuno ti controlla? Dovresti essere tu, a controllarti? E se sgarri che succede? Metti su peso? Ti esce il sangue? Piange Gesù?
Lo ignoravo e ricominciavo. Ma l'eco di ogni sospiro rimbalzava sull'intonaco per minuti. E quando la coda dell'eco pareva smorzarsi, ecco che ne partiva uno nuovo.


Sospirava, e basta. Sapeva che una protesta più esplicita avrebbe ottenuto rimproveri e punizioni. Niente strattoni o suoni molesti. Solo sospiri. Insopportabili. Isolati ma regolari. Gocce dal rubinetto che non ti fanno addormentare. Il primo sospiro potrebbe sembrare casuale, ma dal secondo in poi ne intuisci una lunga catena.
Vediamo quale schiena si spezza per prima, la sua o la mia. Quale ha le vertebre più fragili.

Ma ignorarli è peggio. Si manifestano segni nuovi.
Sono segni di piccola taglia. La pelle invecchia più in fretta. I peli del naso e delle orecchie crescono più veloce. Gli occhi perdono più gradi del solito. Le sopracciglia diventano lunghe e si ispessiscono, come quelle dei vecchi che giocano a carte nei bar, senza annullare mai.


Quell'animale lurido ti segue dappresso e non ti molla più. L'hai svezzato quando era un cucciolo inetto. L'hai cresciuto, corretto, educato. L'hai nutrito, e con le forze che ne ha tratto ora s'impone.
Per lui giocare a Spider non è uno spasso. Sa bene che si vince sempre e si perde tempo.  Vorrà andare a pisciare sulle cose. Annusarne altre. Ringhiare contro i suoi simili e cercare di riprodursi. In società non manca mai di imbarazzarti. Le sue terapie ti fanno spendere una fortuna dallo specialista. Le sue pappe sono altezzose e costosissime. E se vai al risparmio, t'indurranno sensi di colpa. I suoi svaghi, periodici e inderogabili. Pretese assurde, per uno non autonomo come lui.

Metti un aperitivo al bar. Siedi a una tavolata di amici. All'aperto. Ti godi il clima mite, e la lista degli aperitivi. Chiaramente hai dovuto portare anche lui. Lo sciogli, e per la felicità si mette a saltellare dappertutto.
Quando vieni da una giornata di lavoro, e il primo momento in cui provi a rilassarti è 
questo aperitivo, non c'è niente di più molesto di una carogna appena sguinzagliata. Sei lì che sorseggi il tuo drink, facendolo durare il più possibile per legittimare l'occupazione del tavolo presso il gestore del bar. Cerchi di disprezzare in pace i tuoi vicini, che come te non propongono argomenti di conversazione, ma guardano la gente che passa e poi si arrendono al proprio smartphone. Come puoi impegnarti nelle tue faccende, coi suoi latrati eccitati in sottofondo? Qualcuno prova a ignorarlo. Altri tirano qualcosa lontano, nella speranza di guadagnare qualche secondo. Ma lui ritorna sempre. E non provare a tenere in mano roba vagamente commestibile. Nella migliore delle ipotesi starà lì a guardarti, sbavando sui tuoi migliori jeans. Nella più probabile, abbaierà finché non lo farai partecipare alla tua mensa.

Ma adesso basta divagare. Sono a un punto morto. Non rimane che un cambio di carte, e ho completato solo un seme. Farei prima a ricominciare, 'CTRL+Z' fino all'inizio. Ma se ricomincio io, ricomincia pure lui. Stacco gli occhi dallo schermo e lo considero. Immagino di guardare la sua faccia senza espressioni legata al guard-rail, dallo specchietto della mia macchina che riparte.

“Ok bastardo”, faccio staccando indice e mignolo dai tasti M ('Suggerisci mossa') e D ('Dai carte'). “Andiamo al parco a leggere un libro”.
La sua eccitazione è palpabile ma composta. Sa bene che al minimo errore la passeggiata va a puttane.

Preparo guinzagli, museruola e medagliette. Pastoie, con le quali condurlo in ambiti urbani. Mi comporto bene, io. Ci tengo alle convenzioni sociali. La responsabilità per i danni causati dal suo comportamento ricade sempre su di te. E comunque devi sempre raccoglierne le stronzate, e avere con te strumenti idonei alla raccolta delle stesse.

Entriamo in macchina. Faccio partire il cd. La traccia che ascoltavo l'ultima volta è Shaker song, dei Manhattan Transfer. Pare gradirla. Sostiene che gli provochi orripilazioni piacevoli. Difficile dire se sia vero, ma in effetti dà i brividi anche a me. Tranne il finale, dove hanno appiccicato gli assoli più forsennati e pacchiani. Quando invece non siamo soli, se faccio partire la musica protesta. Sembra quasi che voglia concentrarsi sulla conversazione. Anche qui, non gli do torto. Se si ascolta musica bisogna alscoltare la musica. O almeno commentarla. Sennò si sta zitti, o la si spegne per parlare più comodi.



Arriviamo al parco. Scelgo una panchina e mi ci siedo. Sciolgo il bastardo e apro il libro.
Ci sono altri botoli, coi loro accompagnatori. Non sempre educati, né i primi né i secondi. I padroni basta osservarli, e qualche dettaglio te ne svela le qualità di educatore. Può essere la suoneria techno di un cellulare, lasciata suonare per un tempo non funzionale
da un signore di mezza età. O, più esplicitamente, un richiamo non fatto al momento giusto, o lanciato senza convinzione. Io, lo ripeto, continuo a comportarmi bene. Mi preoccupo molto che il mio non dia fastidio a nessuno.

A questo punto tu, che hai fatto altre scelte, potresti chiedermi: ma chi te lo fa fare?

È vero. Ci sono un sacco di lati negativi. Tutti quelli che ho detto, e non solo. Però ce ne sono anche di positivi.
Ad esempio, hai un rapporto semplificato con un essere che puoi controllare quasi completamente. Può fare tutti i capricci che vuole, ma l'ultima parola spetta a te. In quali altre relazioni puoi assaporare sensazioni di potere così totale?
Devi solo rinunciare ad alcune delle tue libertà personali, in cambio. Perché, tu ti credi libero? Ognuno si sceglie i propri gradi di libertà. E poi, non ti senti mai solo.
Detta così sembrerebbe una scelta saggia. Eppure da valutare c'è anche altro. Ti racconto un fatto.

Un vantaggio della situazione, lo saprai anche tu, è che al parco è facile rimorchiare. Il sacco di pulci va a caccia di prede con cui accoppiarsi. Le prede si tirano appresso le loro accompagnatrici. Non sempre graziose o tali da interessarmi. Ma talvolta sì. Si inizia a parlare, ci si siede insieme, si commentano le loro evoluzioni. A volte si concordano accoppiamenti. I loro, e non solo i loro.
Mi alzo dalla panchina, stavolta in compagnia.

Ci mettiamo d'accordo per un aperitivo.
Si vuotano i bicchieri. “Io per stasera non ho impegni. E tu?”
“Nulla a cui non possa rinunciare”.
Sogghigno pensando che finalmente c'è riuscito, il bastardo, a farmi passare la voglia di premere CTRL+Z.

Devi sapere che, con uno di questi leccastronzi appresso, difficile che ti facciano entrare al ristorante. Gli altri avventori tengono alle buone maniere. Ma stavolta è un vantaggio: vengo invitato a cena, direttamente a casa sua. Finalmente il bastardo si sdebita della mia dedizione, almeno in parte, facendomi bruciare le tappe.


Lei cucina bene, ma io penso ad altro. Lo penso e poi lo faccio. Seduti sul divano, all'improvviso le sfioro una guancia e le do un bacio. Come per una malattia incurabile, perdiamo presto i vestiti.
Lei sembra eccitata. Questo eccita sempre anche me. Da quel bacio scendo più in basso, ne do altri in posti diversi, le vado sopra e le sono dentro. Inizio a darmi da fare.

Dopo un po', qualcosa mi distrae. È quel'aborto pulcioso. Non le basta la sua, di preda. Mi ha percepito distolto da lui, e rivuole attenzioni. Lo sento abbaiarmi nella testa.
La sua compagna è più educata. Resta tranquilla e al posto suo. Si vede che è abituata a lasciare in pace la padrona, quando è opportuno. Alla fine non ero mica tanto bravo, come addestratore.

Inizio a sudare. Molto. Le gocce si staccano. Rischiano di finire addosso alla mia partner. Provo a deviarle, ci riesco per un po'. Poi mi arrendo.
“Hai dei fazzoletti?”
“Prendi un asciugamano dall'armadio”.
Mi stacco, e tutto finisce.

Il problema di rimorchiare in questo modo è che poi una volta a letto vorresti stare tranquillo e lasciarti andare. Ma come si fa? Quella sporca bestia ansima anche lei. Vuole giocare. Essere della partita. Mica puoi alzarti e prenderlo a calci. Rovineresti tutto.

Prima di allevarne uno tuo, pensaci bene. Da piccoli sono carini. Curiosi, sempre allegri.
Poi a un certo punto li spereresti in grado di badare a se stessi. E invece no. Lontano da te sono perduti. Gli abbandoni sono proibiti. Non vuoi certo finire al telegiornale, nel generale
raccapriccio. E poi, come potresti separartene. Non sarebbe mica possibile. Al limite potresti sedarlo. Anche per sempre. Definitivamente.

Perché, contrariamente a quanto hai pensato finora, il miglior nemico dell'uomo è il cervello.
Non il cane.

domenica 3 agosto 2014

Tempo scaduto.















Le puttane gratis sono le più dispendiose e le meno soddisfacenti. Questo finora mi ha illustrato la vita. E allora perché?
Perché non fare il gran salto monetario, nel senso. Riserve morali non ne ho.

Non certo con quelle per strada. Minorenni sfruttate e ricattate, probabili ricettacoli di germi, poco igieniche sicuramente. Una sera, avrò avuto vent'anni, ne ho vista una. Tutta smanacciata da una specie di rospo dell'Est, sceso da chissà quale tir o impalcatura di tubi, almeno loro Innocenti. Puzzava di birra. Si appoggiavano sulla colonnina di un benzinaio chiuso, lungo un viale a scorrimento veloce della città.
L'avevo notata in attesa, già mentre cercavo parcheggio. Solita procedura. 'Anvedi che' – 'ah, ma è na' – 'poraccia'. Ancora non sapevo quanto. Ero con una, gratis ma non puttana. Scendendo dalla macchina le passiamo vicino. Vaghi sensi di colpa da uomo,
potenziale puttaniere. Poi smarrimento. Cosa augurare a quella ragazzina? Che il rospo non si fosse mai fermato? Che passasse tutta la notte in attesa di altri rospi? Che a un certo punto da una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi scendesse un principe azzurro, per farle il culo? E perché io e la mia amica, poco più grandi di lei, invece andavamo a vedere un concerto d'estate, e poi al mare domani, e chissà se quella notte dormivamo insieme? Cosa non andava bene, nel posto e nell'epoca in cui era nata? Che si poteva fare, per raddrizzare le cose?
Votare il meno peggio? 

È terribile quando hai domande buone, ma non le risposte. È ancora peggio quando hai entrambe, ma ti comporti come se invece no. Quelle che ricevono a casa non sono sfruttate. Lo sostengono Internet e alcuni conoscenti, supportati da informazioni di prima mano. Spesso sono donne, straniere e non, che arrotondano così. Lavori di merda ce ne sono tanti. Forse ancora più subdoli, nella loro normalità.

Insomma. Ero reduce da un rapporto logorante. E gratis. Soprusi piccoli e grandi. Soprattutto medi. Anche nel sesso. Non mi sentivo libero di chiedere quello che volevo, o darlo. Nella migliore delle ipotesi ricevevo nervosismi. Anche risate, una volta.


Ci pensavo da un po'. Giocavo spesso a pallone con questo mio amico. Se ne forniva da 15 anni. Ci andava di media un paio di volte al mese. 12 mesi per 15 anni: fa 360 puttane. Sulle centomila le prime, 50/70 euro le più recenti. Tranne qualche sfizio occasionale da 250.
Contando anche solo 50 € per tutte quante, ha speso sui diciottomila euro. Senza valutare abitini sexy e gadget acquistati, che mi assicurava costituiti solo da manette di vari tipi.

Probabilmente era vero. A pallone non era uno particolarmente falloso.
Cifre comunque da capogiro, per le ripetizioni di matematica con cui campo al momento.

Ma nel frattempo, qual era stata la mia contabilità di puttaniere gratis?
Almeno un paio di uscite serali alla settimana. Cene o concerti. Spesso pagate da me. Diciamo 70 euro. La benzina, sempre la mia. Mettiamo un pieno alla settimana: 60 euro. Questo esige una puttana gratis. Storce anche la bocca, se la macchina in questione è un'utilitaria di 6 anni. Vacanze costose, anche in posti che non m'interessano. Regalini e regaloni.
Alla luce di questo bilancio non mi sento più tanto virtuoso. Tantomeno furbo.

In realtà, molte delle sue puttane erano da considerarsi con ripetizione. Più che le cifre mi interessavano percentuali e sociologie. Le sue erano queste:


35% dalla russa con cui si trovava a meraviglia
25% da una colombiana di poco inferiore
10% da un'altra colombiana, cugina della precedente, da non buttarsi via neppure lei
  5% altre quattro: una brasiliana
palestrata e plastificata, una milf sessantenne che gli ricordava la professoressa di matematica, una mulatta dal seno enorme e naturale e l'unica asiatica che avesse mai trovato a non dare fregature
  5% un'altra decina di professioniste, per un solo paio di volte
20% botta secca senza tornare, o perché si era trovato male (diversa dalle foto o con decine di anni o di chili in più – frettolosa o insofferente dopo aver percepito salario – tatuaggi terrificanti – grossi nei in posti primari – cicatrice del seno rifatto in bella vista – poca igiene – alito non buono) o perché costavano £iradiddio.

L'ultimo 20%, calcolato sui 360 appuntamenti totali, ammontava a 72 signorine. O signoracce, piuttosto. Questo intristiva lui e preoccupava me. Quanto bisognava spendere, di tempo e soprattutto soldi, per trovarne una buona?
Lui di davvero buone ne aveva trovate 3 su 90. Inoltre, da forum o discorsi con altri avventori, e per la sua stessa esperienza, dichiarava che almeno per le prime 10 volte i nervosismi fanno combinare poco.


~~~

Il resoconto poteva finire qui. Ma se tu necessitassi di un oncologo, per costi e fallimenti sarebbe possibile compilare percentuali analoghe. Quanti metodi Di Belli, quante limonate mattutine bicarbonate e calde, quante chemioterapie invasive inutilmente, quanti aliti cattivi prima di trovarne uno buono? Questo è un approccio emotivo e non scientifico. Inoltre, la mia fonte mi informa che per le puttane a pagamento esistono siti internet e ricchi forum di utenti che recensiscono. Per gli oncologi no.


Quindi vado.
Straordinario. Un vero sottobosco. Ce ne sono per tutte le tasche, e io piano piano mi faccio uno know-how.
Gli acronimi sono incomprensibili, più che in altri settori merceologici. Lentamente li imparo.

B&S
Esca e Cambio (Bait and Switch). Persona diversa dalle foto.

BBJ 
Orale scoperto (Bareback BlowJob); oppure

OWO
Oral WithOut.

BLS
Ball Licking and Sucking.

CIM 
Cum In Mouth.

Extraball
Una in più, come nei flipper.

FK 
French Kiss.

GFE 
Come con la tua ragazza (GirlFriend Experience).

HM 
Vettura di molti chilometri (High Mileage).
 
Incall 
Riceve.

Outcall 
Accorre.

LTR
Fino al mattino dopo (Long Time Rate).

PSE 
PornStar Experience.

rose
Valuta in corso (es. 50 rose = 50 €).

TGTBT 
Too Good To Be True.

TUMA 
Tongue Up My Ass.
       
Poi i migliori:

RAI 1 
Lato A.

RAI 2 
Lato B, di ricezione non sempre garantita.

VU 
Velocità Urbana = 50 km/h = 50€.

E io che mi ritenevo un pornologo.
 

Ok, le informazioni ci sono. Il bilancio economico torna. La convenienza scientifica pure. Cosa rimane?
Igiene. Malattie. Essere beccato sul pianerottolo da uno a cui do ripetizioni. O peggio ancora dalla madre. Poter tronfiamente dire “Ah-ah! Io non ho mai pagato 1 donna”, ma è già chiaro quanto ciò sia ingenuo.

Pagare cash è una faccenda schietta. “Qual è il costo di questa merce?”
“X euro”
“Spiacente. Il prezzo che sono disposto a pagare è Y ≤ X. Per importi maggiori la transazione non andrà a buon fine”
“A Y potrei proporti quest'altro prodotto”
“Ok. L'esito della contrattazione mi soddisfa”.

Sbagliare regalie e scoprirlo da musi storti è meno soddisfacente e ben più disonesto. Ci vuole del fegato, a essere non gratis. Rischi di sentirti ridere in faccia, quando reciti il tuo tariffario. Al diavolo l'igiene, al  massimo scarterò le BBJ. Non le bacerei mica volentieri, ammesso che consentano il FK. Non temo pianerottoli. Ne sceglierò in aree poco battute della città. In fondo le mie magre scolaresche mi vivono quasi tutte in zona.


Quindi consulto. Scarto candidate, copioincollo le papabili. Nelle sottocartelle del mio computer si viene a creare il file “cash”. Presto giunge l'ora di telefonare; però rimando. Ma due notti con dentro lo stesso sogno pieno di sensi di colpa catto-borghesi mi sbloccano. Nel digitare il primo numero sulla tastiera del cellulare, il cuore mi batte. È come tuffarsi, o approcciare una ragazza. Mentre stai per proiettarti il baricentro oltre la confort-zone, ti senti guardato da tutto il mondo. Lui invece continua a farsi come sempre gli affari suoi. Chi senti borbottare è quello che ti hanno ficcato o ti sei ficcato da solo nella testa.

I numeri sono spesso irraggiungibili. O sono in pieno esercizio, oppure hanno cambiato città. Sono in tour, come loro amano dire. Tendo a scartare le linee più movimentate, preferirei non dovermi mettere in fila. Quando suona libero mi ausculto tremare dentro e fuori. Mi risponde la prima. La mia voce malferma s'informa su costi e orari, ma si scorda di chiedere l'indirizzo. Per la vergogna non richiamo, e vado oltre.

C'è questa russa che dalle foto è incredibile. Mi faccio condizionare dal mio terzino, che con la sua si è trovato bene: una vera GFE. Alla fine della telefonata chiedo “Ma le foto che ho visto, sei davvero te?” “Ahah, certo!”. Mi faccio scappare un “Madonna, ma allora sei proprio bella”, di cui mi vergogno
immediatamente.

Voglio essere il primo. Mi riprometto di andare il giorno dopo per le 13.00, all'inizio della sua alacre giornata lavorativa. L'ultima che frequentavo gratis iniziava a sbraitarmi contro dalle sette del mattino.


~~~

Il giorno dopo mi alzo presto. Mi
lavo i denti, mi faccio bene la barba e la doccia. Voglio essere irresistibile. Per strappare un prezzo vantaggioso, ma soprattutto per sentirmi apprezzato, per una volta.

Mi reco in zona. Accentuo le spiegazzature del Tuttocittà, la mia utilitaria di sei anni non ha navigatore. Aria condizionata alta, per non arrivare sudato. Scelgo un parcheggio lontano dalle case. Qualsiasi pedone sembra giudicarmi, come quando da adolescente facevo incetta di giornaletti pornografici. Perfino la giornalaia che li vendeva.


Faccio il numero, e lei assurdamente risponde. Ha una voce molto dolce, l'ho scelta anche per questo. Mi dice che può, però alle tre. 'Porca troia!', penso. Ma mi pento di pensare così di una così dolce. Certo, che vuol dire 'alle tre'? Che devo raccattare quanto percorso manco da 1, ma da 2 avventori precedenti? Che fastidio. Però ieri mi ha detto che in queste mattine è alle prese con un trasloco, forse è questo ciò che la impegnerà fino alle tre.

La paura è scomparsa. Resta solo la voglia. Una voglia furiosa, assoluta, che non ammette deroghe. Io oggi andrò da una puttana cash. Sguaino il cellulare. Utilitario e di sei anni anch'esso. Dal suo mini-display mi metto a cercare sui siti ormai noti, maledicendomi per non avere dietro il file “cash”. La navigazione è estenuante, e io metto in moto la macchina per cercarmi una spremuta di pompelmo. Chiamo un paio di professioniste promettenti, ma hanno iniziato a praticare dalla mattina presto, e a me le orme di animali selvaggi mi confondono. Anche se oggi potrei diventarne uno anch'io.
Fra una cosa e l'altra si fanno le tre.

Torno al vecchio parcheggio. C'è ancora. Richiamo. Mi chiede di sentirci quando starò davanti al civico per darmi informazioni più precise. Rosico a bestia. Cosa penserà la gente di uno che chiama al cellulare davanti a quel laido palazzo? Il mio travestimento di cappelli con visiera e grossi occhiali neri non basterà. Decido di fingere la telefonata da ben prima di arrivare.


Da indicazioni telefoniche imparo che da una fontanella pubblica parte un vialetto. Lo devo percorrere, fino all'ultimo portoncino. Ne vedo vari, nel frattempo. Ognuno è corredato da finestre a tenda scura. Per dio, questo è l'antro del piacere. La voce nel telefono è superata in volume da quella dietro la porta. Che si apre.

Gambe nude. Quaranta e passa anni. Chioma bionda. Canottiera rossa trasparente e reggicalze dello stesso colore. Tacchi alti, almeno loro. Il resto non supera il metro e sessanta.
Questa è l'unica informazione che combacia. La persona in questione non è quella delle foto. Sono incappato in un chiaro caso di B&S.


Ma non fa niente. Sembra dolcissima, come la voce con cui parlavo. Gli occhi mi sorridono da dietro  fessure strette. Ha le fossette. Proprio il tipo protettivo di cui hanno bisogno le mie gambe tremolanti.
Entro, ed è più scuro. Ci baciamo su entrambe le guance. Mi fa sempre strano baciarsi sulle guance con una che non ho mai visto. Ma lei non è come le altre: lei è cash.
 

Al proposito le chiedo “Quanto ti devo dare per una chiacchierata, un po' di carezze e fare l'amore? L'orale non mi interessa particolarmente”. “Una cosa tranquilla, 50 euro”. Prendo il portafogli, lei bisbiglia un “non fa niente...”. Lascio comunque la banconota in anticipo e sul comodino, come si addice a un vero gentiluomo.

Devo andare al bagno, trattengo da tempo una pisciata incommensurabile. Mi dà della carta da un rotolo grandissimo. Urino e mi lavo uccelli e mani. Torno dentro. La banconota non c'è più.

“Senti. È la prima volta. Mi tremano le gambe. Mi devi aiutare tu.”
Apre appena le fessure, meno stupita di quanto mi aspetto. Non ho da preoccuparmi, secondo lei. Certo non ho mai trovato facilità di comunicazione ed empatie simili, nel gratis.
Si sdraia sul letto matrimoniale, e mi dice di spogliarmi.

Dice bene, lei. Mostrarmi nudo è sempre stato un dramma. Ma lei non è una qualsiasi. Lei è cash. Quindi vado.
D'altronde sono in forma, e nonostante gli acquazzoni dei giorni scorsi ho una discreta abbronzatura. Mi spoglio e la raggiungo. Non mi sembra colpita dalla mia muscolatura. Eppure, oh!


“Mmm, sei dotato”. Una buona cosa, se non lo dicesse probabilmente anche a chi ce l'ha concavo anziché convesso. Ci sdraiamo. Io sul fianco destro e lei sul sinistro. Inizio a carezzarle una coscia. Faccio scorrere le unghie sulla pelle, delicatamente. “Sei bella, sposiamoci”, mento. Ma la trovo bellissima, lei è cash. Cerco di baciarla in bocca, ma è un modello che non supporta il FK. Più tardi, a causa di quel buco spaziotemporale dalle 13.00 alle 15.00, me ne rallegrerò.
Non demordendo, le lecco un lobo e il collo. Ma la mia barba la pizzica, e teme che ciò le arrossisca la pelle. A suo modo è timida. Ciò mi mette a mio agio. “Non leccarmi così, o poi dovrò farmi una doccia”. Questo m'insegna che sul lavoro tende a non farsene.


“Come ti piace?”, faccio io e non lei. Le spiego che mi eccita vedere la mia partner eccitarsi. Che mi piace essere guardato negli occhi, e vederle spesso la lingua in bella mostra. Me la concede per un attimo sulla mia, e mi guarda negli occhi per un tempo ancor più breve. Sembra veramente timida, il che non mi dispiace.
“Tu sopra e io sotto, si sente di più”. Sarà vero? Non l'ho mai capito bene, dalle mie gratis.
“Però salimi sopra
tu per un attimo”.

Lei allora prende qualcosa da una ciotola sul comodino, che mi era sembrata contenere decine di bustine di tè, e m'infila in un secondo il preservativo. 'Ah! Ecco cosa', penso io in uno dei miei caratteristici lampi di genio.
Nonostante i miei input ci va di bocca. Non mi è mai piaciuto particolarmente. Specie col preservativo. Poi ti sembra di baciare un tubetto di Crystal Ball.


Però si ricorda di iniziare a starmi su. Non mi calza fino in fondo, solo il primo tratto. Non piace granché a nessuno dei due. “Adesso stammi sopra tu”, e si sdraia di schiena.
Me lo prende e se lo infila. Mi piace quando non sono io a dover trovare il buco. Ehi! È bella stretta! Davvero incredibile, l'universo cash. Così inizio a darci dentro.

Ho un amoreggiare movimentato. Una volta
ho ritrovato il letto a mezzo metro dalla parete su cui poggiava. Anche questo oscilla parecchio. Mi distrae sbattendo contro il muro. Avrei preferito una struttura più massiccia. Vado lento e poi veloce. A un certo punto, molto veloce. Mi tengo su a palmi aperti e poi a pugni chiusi, cavalcando in un attimo ogni corrente parlamentare. Lei risponde poco, ma si lubrifica completamente. Questo mi conforta, spingendomi a far bene.

Le poggio l'addome sulla pancia. Infilo le braccia sotto le sue, e prendendola per le spalle me la spingo contro. Mi piace sentire le pance sudate, e i buffi rumori che fanno. Specie la mia, dura e tagliente, su una ben più morbida. C'è un ventilatore sul comodino. Anche lui fa il suo lavoro. Tutto lavora per il bene comune.

L'entropia per una volta cresce poco. Mi stacco dalla sua pancia rotonda e mi metto in ginocchio da lei senza sfilarlo. Le prendo le gambe e me le schiaccio sul petto. Cosce sode sugli addominali, asciutti e sudati al tempo stesso. Buona intuizione. La mia parte sensibile le tocca il finisterrae. Mi sento in forma.

Le sise girano per i miei colpi. M
oto antiorario quella a destra, mentre l'altra a sinistra va al contrario. La frequenza della rotazione segue la mia velocità.
Perché non girano solidalmente? Verso orario per entrambe, o antiorario? Sarebbe lo stesso, il verso, nell'emisfero australe? È il caso o no che io ne parli con lei, in questi frangenti? Lo sarebbe, se fossimo in un contesto di puttane gratis? O addirittura con la propria ragazza?
 

Se non se ne andava prima del tempo, magari potevo chiederlo a mia moglie.


Tesoro, hai problemi?
Ora che ci penso, vado avanti da un po'. Del cash sto per varcare le colonne d'Ercole.
“No no, che problemi. Potevo venire un sacco di volte”. Mi diverto molto. Per l'entusiasmo decido di leccare quello che ho intorno, e di forse pulito le trovo i malleoli.

Lecco e succhio, succhio e lecco e sono a posto. Lei lo prende tra due dita e lo leva con cautela, stando attenta che non si sfili il preservativo. Non vorrà mischiare le razze. Corre in bagno, indicandomi la carta. Io me lo levo e ne faccio una pallottola, con cui centro il cestino al primo colpo. Dum-de-dum. La vita è bella, e il suo costo è basso.

Mi andrebbe di chiacchierare sdraiati. Abbracci e carezze. Dalla sua espressione mutata capisco che non è il caso, e dovrò rivestirmi in fretta. Mi disoriento. Forse era questa, la speranza del Gratis.

Afferra alcuni tra i telefoni che giacciono su un tavolo. Prima non li avevo notati. Si infila un auricolare e risponde a una suoneria muta. Parte in italiano, ma da un “Da” in poi parla in una lingua che non è più la mia.


Io mi rassegno e mi vesto. Occhialoni neri di nuovo, visiera ben calcata sulla fronte e sono fuori. Naturalmente, traggo dalle tasche gli ingredienti per confezionarmi un'ottima sigaretta. Percorro il vialetto, arrivo alla fontanella e poi alla macchina. La mia utilitaria di 6 anni mi ha atteso fino all'ultimo, come farà certa gente a denigrarla. Metto in moto e m'incammino.

La sigaretta è buonissima. Ho la lingua strana. Mi ricordo di aver leccato. Un pensiero mi trafigge. E se le stesse zone in precedenza le avessero scelte dei portatori di mustacchi? Ho dei fazzoletti di carta. Non si può leccare un fazzoletto di carta. Ci sputo dentro quello che posso.
 

Quasi a casa c'è un camioncino scoperto, guidato da un rumeno. Vuole sbucare da una traversa tagliandomi la strada. Gli suono e lo guardo. Male e negli occhi. Lui abbassa lo sguardo e frena.
Dev'essere questo, ciò di cui parlano. Come si chiama? testosterone.


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