martedì 18 giugno 2013

Mal di ali.





















1. Parole



I motivi per cui sono qui, com'è vidente, sono vasti e ancor più vari; ma soprattutto, poco meno che noiosi.

Traumi infantili? No, non mi sembra. O almeno, non che io ricordi. Le cose solite.

Un rapporto conflittuale con la madre, che poi tendo a ricrearmi nella coppia, per tentare di dargli alfine un lieto fine. Mi scordo puntualmente che è impossibile, da dentro un rapporto che si vuole paritario. Mi sconvolge di esserne, da un punto razionale, consapevole. Se all'orizzonte c'è il miraggio dello scambio affettivo, ci casco dentro come il peggiore degli assetati stronzi.
 
L'incapacità di privilegiare la realizzazione di me, piuttosto che delle mie pigrizie.
 
L'averla in qualche modo sempre fatta franca.

Ma queste non sono che facce di un poliedro più complesso.

Il poliedro che mi disarciona puntualmente nasce dall'obbligo che ho assolto, evidentemente male, di farmi da figlio a gente. Da cardine di attenzioni a comparsa periferica. Io sono figlio, e lo rimango. Non solo per coerenza genetica. Ma perché acquisto informazioni dai miei sensi. Che sono solo miei. Perché le elaboro con un cervello tutto mio. Ciò mi rende  velleitario agli occhi di altri. Quando invece, se ho fatto un buon lavoro, mi sembra di esser fiero della mia oggettività. Sono figlio perché me ne resta l'indole infantile. È sano? è malato? Non lo so. Di certo, di me infante, conservo inalterati slanci generosi e indifferenze crudeli. Si cambia, con l'età? lo si fa davvero? secondo me, no. Certo m'impressiono, quando guardo le puntate dei cartoni che vedevo da bambino. Le stesse sensazioni, affardellate dall'inumana o troppo umana quantità di tempo che è passato, di nesperienze fatte. E che mi ha solo suggerito modi e trucchi per urbanizzarmi, regolarmi per essere sociale. Ma, dietro questi, rimango me.

Trovo la gente orribile. La guardo mentre aspetta i miei autobus, mentre compra o solo guarda quasi le stesse merci che guardo o compro io, quando si scopre col caldo e si protegge dal freddo, sembrando copiare i miei costumi. La maggior parte è brutta. Fronti basse, teste piatte, spalle scoscese. Varici sul viso, niente stile nel vestire, attenzioni decadute nella buca di potenziale del proprio cellulare.

Avviene ben di rado che la gente m'interessi. Per proporzioni armoniche. Per l'involucro che tradisce i contenuti – e, no, non sono lombrosiano. Per interessi a loro volta interessanti.
Allora con quelle genti interessanti nascono difficoltà, da fronteggiare. La mia invadenza possibile, e il  rischio di farsela scappare. E in mezzo il bilico, che dà vertigini. Divergenze e incomprensioni. Pazienti “inculate date e prese”. L'urgenza di alcune convergenze, e l'impeto distruttore che ne deriva. Il timore di una fatica che poi risulti vana, per incapacità proprie o per abbagli nella stima; e quindi la rinuncia, spesso preventiva.

Me ne sono accorto qualche anno fa.
Come al solito volavo verso soli che avevo sempre percepito raggiungibili. Sintomi vaghi, ma non irrilevanti. Ho iniziato a coglierli. Fastidi locali, piccoli disagi, tensioni tenui eppure persistenti.
A differenza dell'indole, il corpo muta. I tessuti cambiano, per usura o invecchiamento. Si irrigidiscono, callificano, si sfibrano. La cera, che pure aveva tenuto fino a llora, non riesce più a tenerli coesi. Lo sappiamo bene noi, sempre presenti ai nostri allenamenti. Da giovani per recuperare da qualsiasi trauma basta una buona notte di sonno. O almeno questo sembra, perché invece corpo e cervello gareggiano per serbarne traccia, presentando il conto in un primo volo malato, in cui il segnale premonitore si farà, da allora, permanente.

La fatica di lavorare. Di lavarsi, radersi, nutrirsi. La noia intollerabile di funzionare e basta. Le somatizzazioni.

Ma non è niente. Io sto bene. Questo divano, piuttosto, su cui sono sdraiato. È di pelle, no? L'ex-occupante di questa pelle, lui si che ne ha, di rogne. Uno dovrebbe commuoversi, a pensarci. Io al confronto sono un privilegiato.

L'unica è imparare i nuovi ritmi. Riconoscere gli avvisi. Recuperare il giusto. Fare molto, ma molto, allungamento muscolare.

È per questo che sono qui. Lei può allungarmi i muscoli? È un muscolo, il cervello? Volontario, nel caso, o involontario, per quanto m'illuda di sapermene avvalere? che dice la sua Scienza?
E soprattutto: la cura psichica, i farmaci prescritti, l'accanimento terapeutico cui lei mi sottoporrà, sono mutuabili, Dottore?



2. Musica




2 commenti:

Anonimo ha detto...

Avrei la cura giusta per te...

Vilipendio ha detto...

Impossibile.
Una volta decaduti, i capelli non ricrescono.

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