lunedì 10 marzo 2008

Il pozzetto dell'ascensore.










(Storia di brivido e di suspense – se sei debole di cuore, sii almeno forte di fegato)


Questa storia inizia così. Prima metà di settembre 1987, domenica mattina, il mio II liceo classico sta per iniziare e io sto per esordire inconsapevolmente in quello che sarà l'anno più nero della mia vita. Sono sempre stato 1 ciccione, ma finché ho potuto sopperivo con la simpatia e le battute, mi riuscivano bene. Ai ciccioni riescono spesso bene. Sono grasso. Non ciò più voglia di sopperire, basta sopperire, le ragazze ridono ma poi fiutano la mia inconcludenza, e spariscono con gli altri.
Questo dice la muta didascalia della vignetta che mi vede salire la salitella che mi porta a messa. Ma percorsi pochi passi ecco scoccare l'attimo perfetto, il cui ricordo ancora m'emoziona. “Ma perché devo andare a messa?” mi dico in un impeto di personalità, “sono un ciccione, sto affrontando il liceo con 2 paia di pantaloni, 1 felpa e un maglione di lana gialla tutto rigorosamente non di marca nell'epoca dei Paninari in un quartiere fighetto di Roma, la mia paghetta settimanale è sospesa da quando m'hanno beccato 2 anni fa col portafogli di papà nello zaino Invicta Jolly d'un verde militare che non s'è mai visto – regalo della comunione di mio fratello minore nonché unica concessione indebita alla moda del tempo - per comprarmi il gelato ed essere ancora più ciccione, non ho una ragazza – mi fa ridere solo constatarlo – né vedo come ce la potrei mai avere, ciccione, senza soldi e senza motorino, che le direi se ce l'avessi, 'pigliamo l'autobus a scrocco per fare non so cosa ma presto perché devo tornare a casa entro le 23 ringraziando il cielo che è sabato sennò manco potevo uscire', che cazzata la vita, sto in una situazione enorme per uno senza speranze come me. E sto andando a messa. Ma vaffanculo! Non ci vado. Io odio chi mi fa stare così. Voglio imparare a odiarlo come nessuno. Ora bestemmio.”, e assaporando ogni singola lettera di quella che sarà negli anni a venire la mia esclamazione di default nella buona & nella cattiva sorte, prima penso e poi dico muovendo le labbra a voce alta il mio primo “Porcoddùe”.
Altro che la prima bracciata indipendente nel mare del Circeo. Altro che i primi 10 metri in bicicletta senza le rotelle sul vialetto del mio giardino tra le montagne abbruzzesi. Questa mia prima volta nella vita sarà quella cui dovrò la maggiore libertà di pensiero. Il Vilipendio. Tutto torna. Da quel momento sarà la mia coscienza pur inizialmente atrofizzata a dettarmi indicazioni per il mio operato, e non il dogma delle lacrime di Gesù. Mi ripropongo di estinguere il mutuo dei 16 anni di fedele devozione (addirittura certi anni andavo a messa pure i venerdì a maggio, che era il Mese della Madonna, anche se in fin dei conti era più sul niente di speciale come tutti gli altri) con 16 anni di bestemmie. Addirittura in seguito mi sarei riproposto di dare una grande festa nel settembre in cui avrei compiuto 32 anni, iniziando così una gloriosa carriera da blasfemo miscredente senza più debiti formativi da pagare. Addirittura, addirittura (che è un po' come dire 'In verità, in verità vi dico', che si usa quando il fatto in questione è proprio importantissimo) adesso penso che appena supererò la pigrizia e mi sbattezzerò darò una festa di Sbattesimo in cui restituirò a tutti gli orologi al quarzo Tiqua che ti regalavano a ogni sacramento ricevuto. Ma un mio problema atavico è che delle splendide idee che mi vengono realizzo nulla o quasi.
Al primo bivio giro a destra, invece che a sinistra verso la chiesa. Inizia così un domenicale peregrinare pallido e assorto, col caldo o col freddo, col sole o colla pioggia a dirotto, che mi vede hassiduo abitué di circonvoluzioni nel quartiere col terrore di essere beccato da genitori e parenti o di essere notato da estranei mentre vago evidentemente senza una meta, cosa che ritengo essere motivo di profonda vergogna abituato come sono al dovere di dare spiegazioni agli adulti per qualsiasi mossa.
Così ogni domenica. “Ogni maledetta domenica”, quando sento citare quel film ancora m'immagino di esserne il reale protagonista. Se piove mi bagno, e non posso prendere troppa acqua. Sennò si capisce che non sono stato per lo più sotto a un riparo, in quell'ora maledetta. Bagnarsi un poco - perché in ogni caso nel tragitto di andata + ritorno un poco ci si bagna - ma con discrezione. I primi tempi alle volte cedo alla tentazione di cercare riparo nel posto più scontato, in chiesa per l'appunto, ma scopro cose nuove durante la funzione che prima non avevo mai notato. Quanto sono belli e ben curati e sorridenti e apparentemente felici i ragazzi che moltiplicano i loro Canti x Cristo, che bello dev'essere saper suonare la chitarra così forte davanti a tutti senza vergognarsi, io che studio controvoglia il pianoforte dalla terza elementare e non mi faccio mai sentire da nessuno (e ancora adesso quando posso suono in cuffia), saranno certamente tutti fidanzati fra loro. Oppure, quanto sono impellicciate le signore e allampadati gli uomini del mio quartiere, e come si guardano intorno mentre rispondono a voce alta alle invocazioni del celebrante. Scopro l'ipocrisia dentro quel posto un tempo sacro. Mi chiedo dove fosse stata per 16 anni. Mi chiedo dove per 16 anni fossi stato io. Certe volte quando si prega tutti insieme gioco a bestemmiare senza emergere dalla coltre di voci che mi sovrastano sfidando dio a punirmi, se ha il coraggio di uscire dal suo silenzio omertoso. Ma nonostante tutto, preferisco gli acquazzoni.
Dirai: ”Dov'è il brivido? Dove la suspense?”. Fin qui ne è pieno, almeno per me. Ma tra poco arriverà trionfante, per tutti i lettori dai gusti grandguignolèschi, la scatologia.
Fine inverno di qualche anno dopo. Fumo. Ho qualche vestitino in più perché lavoricchio, ripetizioni di matematica. Faccio l'università. Ingegneria elettronica. Certe volte ho l'impressione che, dopo il liceo classico fatto per lo più d'estate, sia ingegneria a farsi me, ma sono troppo pigro per trarne una conclusione. Ci vorrà ancora del tempo, la conclusione verrà tratta verso i 26 anni, ma nel frattempo ho 22 anni e faccio ancora sega a messa.
Sega a messa. Facevo sega a scuola regolarmente dal V ginnasio, fino ai picchi del II liceo quando saltavo oltre a ciascun lunedì (giorno in cui avevo troppe ore con l'essere inumano che più di ogni altro mi umiliò gratuitamente, la professoressa C.) un altro giorno della settimana liberamente configurabile. La mia vita era fare sega. Anche farmi seghe, e parecchie, perché ero sì dimagrito ma timido, e certo non aiutavano i primi sentori di una calvizie incipiente. All'epoca sono asciutto, muscolosetto, decisamente carino anche se non so di esserlo e nessuno me lo dice, porcatroia il tempo che ho buttato, e ho ancora qualche mese di integrità tricologica. Ma niente, questa breve intersezione di fisichetto capelluto non mi riguarda. Sono troppo preso, tra le altre cose, dal fare sega a messa.
Piove. Ho rimediato le chiavi della terrazza condominiale, il classico terrazzone dei palazzi anni'60 pieno di antenne arrugginite e dei lavatoi in disuso di prima dell'esplosione robografica degli elettrodomestici nelle famiglie italiane. Ma sono uscito di casa e le chiavi me le sono scordate e non posso certo tornare indietro, perché sono uscito quando la messa è già cominciata da 5-10 minuti e mia madre sa bene che se si arriva dopo la I lettura la messa non vale e bisogna tornarci l'ora dopo. “Non vale”. Che ficata, “non vale”.
Le alternative non ci sono, o meglio una ce n'è, e ciò già fatto ricorso altre volte. Non posso uscire in terrazza, arrampicarmi sul tetto e guardare il panorama o tirare fuori quei 2-3 giornaletti di donnenùde che ci ho lasciato acquattate, né posso uscire per strada perché davvero piove a dirotto, devo decidere in fretta e allora me ne starò per quaranta minuti sul pianerottolo del terrazzo, 1-metroquadro-1 con una finestrella senza vetro da cui entra tutto l'umido, il freddo e la grigia depressione che mi ha sempre dato la pioggia, e più in là IL POZZETTO DELL'ASCENSORE.
Quasi non mi andrebbe di parlarne adesso, per quegli scettici che avevano creduto di essersi imbattuti in una Pubblicità Progresso dell'Unione Atei Agnostici Razionalisti! Ma lo farò perché lo devo a chi mi ha dato fiducia finora, fosse anche solo uno che abbia condiviso in parte le mie esperienze silenziosamente protestanti, magari senza quella cosa del fare sega a messa per 8 anni.
E' incredibile quello che può fare un animale quando si annoia. I criceti corrono sulle loro ruote, il pappagallo che avevamo sgretolava col becco qualsiasi oggetto trovasse nella gabbia oppure tentava (e spesso riusciva) di evadere dalla stessa, facendosi beffe di qualsiasi serratura (se non si fosse già chiamato in altro modo avrebbe dovuto chiamarsi Houdini), prima di scappare definitivamente. Io nei primi 5 minuti credo di aver fatto tutto quello che si poteva fare, coi pochi elementi a disposizione. Cioè niente, una sbirciatina fuori dalla finestrella, un sussulto a un po' di rumori per le scale e l'orribile scoperta di avere in tasca il mio pacchetto da 10 di Chesterfield light ma senza accendino!, mitigata solo dalla paura che se fosse salita mia madre (paura del tutto infondata, a ripensarci adesso) avrebbe saputo di avere un figlio che oltre a far finta di andare a messa (e si sarebbe certamente suicidata, era questa la mia paura di 8 anni di messe segate) fumava, con l'aggravante del “di nascosto” (perché se uno fa sega a messa ti pare che dice ai genitori che fuma?). Allora faccio una scoperta.
Scopro che la porta del POZZETTO DELL'ASCENSORE ha la serratura praticamente divelta. Quello del pozzetto dell'ascensore (ora basta majuscole, che su internet non sta bene) è un luogo da sempre proibito ai bambini, quindi affascinante. Pure a 22 anni continua a esserlo, come lo è anche l'attraversare fuori dalle strisce, certe volte che ci fai caso. E io avevo sempre rimpianto di non esserci stato quella volta che mio padre da lì dentro aveva tirato su mia nonna imprigionata nell'ascensore fermo, poverina. Bene, qualcuno forse per un'emergenza doveva averla forzata, perché vedo che a farci un po' leva con la chiave tra porta e stipite si apre. E' meraviglioso, sono convinto ancor'oggi che se non fosse stato quello la mia noia avrebbe materializzato qualcosa di altrettanto interessante. Magari un varco tra appartamenti o un ripostiglio segreto o pistole o un forziere colmo di gemme dove parte l'arcobaleno, ma fra poco i segreti del pozzetto dell'ascensore mi si sarebbero dischiusi.
Quindi entro. E' buio, trovo l'interruttore.
Piccolissimo. Uno stanzino di 2m x 2 con un pozzo quadrato al centro protetto da un parapetto dove c'è per l'appunto il pozzetto dell'ascensore. Attorno, i 30 cm di larghezza di un sedile perimetrale fatto di mattoni intonacati. Che squallore. Il bambino che è in me (e ci resta) scopre quell'ennesima delusione, niente lucìne e servomeccanismi stile Guerre Stellari, solo polvere e una lampadina che penzola dal muro grezzo a illuminare fiocamente ragnatele cementose. L'ennesima delusione di un dio che nel frattempo continua inesorabile a essere celebrato dalla danza della pioggia dei suoi celebranti. Bah, almeno ho delle varianti, una ruota da criceto più evoluta. Il mio prossimo gioco è quello di svitare la lampadina, accendere l'interruttore e con lui provare ad accendere la mia sigaretta. Ci provo senza alcuna cognizione di come misteriosamente agisca la corrente elettrica, poiché i miei studi ingegneristici avevano come unico obiettivo la mera speculazione matematica, e dopo vani e timidi tentativi mi dico come l'uomo di Neanderthal prima dell'ultima mazzata Sapiente che E' bene essere prudenti. Non ero uno che amasse sperimentare. Ormai s'è capito che quando vedevo uno status quo ante mi ci ficcavo dentro con lo stesso ingenuo entusiasmo di Charlie Brown sul finto mucchio di foglie apparecchiato da Lucy van Pelt.
Poi succede.
Passi, passi dai piani inferiori. L'ascensore si muove. Che palle. E che paura. E' già successo, oggi e nel passato, è domenica, i parenti si riuniscono, ci sono gli inviti a pranzo, la gente esce per andare in chiesa veramente e poi rientra, qualsiasi rumore dell'ascensore da lì sopra viene chiaramente amplificato. Ma questi passi salgono, salgono. Non fa niente, c'è un'anziana coppia al quarto piano che ha figlio, nuora e nipotini al primo, potrebbero essere loro a chiamare l'ascensore e poi a decidere di salire comunque a piedi. Salgono. Secondo piano. Normale, adesso passeranno per il III, il mio, ed eccoli salire le ultime due rampe di scale per il quarto. Madonna, se qualcuno dovesse arrivare fin quassù, cosa direi? L'unica sarebbe sperare che non mi chiedano niente, quindi salutare senza dire niente e scendere. Ma è troppo presto per tornare a casa, la messa non è ancora finita, non posso dire che ho fatto una passeggiata e ci torno questo pomeriggio perché piove, piove a dirotto e allora dove sono stato fino adesso? Dire che ero arrivato tardi, ho seguito un po' ma ci torno all'orario pomeridiano perché mi sono reso conto che non valeva? Non riuscirei a mentire così spudoratamente, diventerei tutto rosso e mi farei schifo, e poi mia madre non ci casca, si è accorta che da un po' la messa non è più una mia iniziativa entusiastica e sarebbero domande. Ma basta! Chi dovrebbe mai salire fin qui? E' domenica, gli antennisti non lavorano, nessuno può desiderare di uscire sul terrazzo condominiale con la pioggia a dirotto, che cazzo! Smettila di avere paura, è irrazionale, adesso arrivano a quel cazzo di quarto piano e si sente aprire la porta e tu te ne stai qualche minuto a far sbollire il cuore e poi qualche minuto ancora e poi scendi e mangi e ti senti le partite e poi nel pomeriggio fai finta di studiare mentre fai di nascosto le formazioni della Fiorentina dell'anno prossimo sul quaderno.
Quarto piano.
Quinto piano, prima rampa.
L'uomo è un animale, lo è completamente, ne mantiene ancora gli istinti, per quanto diluiti nei suoi smog. Affrontare l'avventore. Mettersi spalle alla porta del terrazzo e fingere di esserne appena usciti. Ma non ho le chiavi, se me le chiedono non le ho. Quindi non è credibile. Rintanarsi nel pozzetto dell'ascensore, spegnere la luce, magari acquattarsi dietro il parapetto perimetrale. Se rimani in campo scoperto puoi scappare ma puoi anche non farcela, se decidi di provare a nasconderti puoi passare inosservato ma puoi anche essere scoperto, e allora è finita, è vergogna esponenziale.
Quinto piano, seconda rampa.
Decidi. Decidi, decidi, DECIDI! Dentro, non foss'altro che per rimandare il contatto. Luce spenta porta accostata fuori luce dentro buio io posso vedere chi sta fuori no. Acquattarsi? Troppo. Se qualcuno entra muore d'infarto, e io non mi ripiglio più dalla vergogna di aver compiuto un'azione pessima come l'omicidio. Ma non entrerà mai, mai! dio, perché dovrebbe entrare? nessuno è intrappolato, è domenica cristo, domenica! e riparazioni i tecnici non ne vengono a fare la domenica, no! Lo so, è sicuramente la mamma del coglione più sfigato della Terra, l'unico ciccione interiore che possa avere questi problemi. Io!
Passi sul pianerottolo. 1 metro x 1. Sono dentro.
La luce si accende. Sono, indovinate un po', i nipotini. 12 e 7 anni o qualcosa del genere. Molto, molto meno spaventati di quanto avrei immaginato. Sussultano, sì, ma poi è il maggiore a sentirsi in dovere di giustificarsi, io sono il grande, anche se fossero a conoscenza dell'elenco completo delle mie fughe dalle responsabilità non oserebbero mai contestare quello che ai loro occhi è evidentemente il mio primato di adulto. “L. voleva vedere cosa c'era quissù, l'ho accompagnato...”
Sorrido di quell'innocente elegante dignitosissimo scaricabarile sul fratellino piccolo dal sedile su cui senza accorgermene mi sono seduto negli attimi della colluttazione. Piego il capo nella mimesi di un “sì” e mi esce strozzato dalla gola un “he!” gutturale che mi risuona nelle orecchie stupefatte per tutto il successivo quarto d'ora, dal momento in cui li lascio graziosamente uscire così com'erano entrati (“Spengo la luce?” “Occhèi”) al momento in cui finalmente scatta l'ora in cui posso tornare a casa (“Già sei tornato? ma che è già finita? è presto...” “Sì ho corso perché pioveva” e via, senza assecondare passivamente come mio solito l'interrogatorio, tanto sono turbato).
Nella semiotica dello scureggiare in pubblico c'è una dinamica, sempre la stessa. Lo scureggiante è sicuro della propria superiorità intellettuale sul branco degli scureggiati. Lo dico per esperienza perché nella mia più che decennale serie di trasferte musicanti uno di noi nel furgone scureggiava di nascosto (credeva lui) regolarmente. Sempre lo stesso, il più grande. 35enne, credeva che noi 25-30enni piccolini non ce ne saremmo accorti coi nostri nasi imberbi, o che non ce ne sarebbe importato granché. Ma puzzava, ah, se puzzava. Lo Scureggiatore Senza Nome, lo chiamavamo. La stessa dinamica può verificarsi se lo scureggiante è il papà coi figli, o un maschietto dominante in un'allegra comitiva di adolescenti.
Io ero lo scureggiante, loro gli scureggiati. Mi preoccupavo più per quello che sarebbe potuto succedere che per quello che era successo. Dieci anni di differenza erano troppo in quella fascia d'età. Certo, negli anni a venire vedendo quegli ex-bambini che salivano sulle loro macchine sportive con le loro fidanzate bellissime quando io rientravo a casa da mamma & papà su un Panda vecchio e non mio, un brivido mi saliva lungo la schiena... 'e se ricordassero'?
Ma no, no, 'non se ne saranno accorti'. O 'non glie ne sarà importato granché'. Delle mie vecchie scuregge. Ma c'è una parte di me che ha i brividi quando pensa alle motivazioni che quei ragazzotti ex-poveribambini avranno immaginato per il mio comportamento. Stranezze da grande? o da pericoloso maniaco psicopatico? Ci penso ogni tanto, impaurito e affascinato dal mio stesso pensiero, come lepre di notte davanti agli abbaglianti.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Vilipendio, una boccata d'ossigeno riimmergersi nelle atmosfere della "nostra" adolescenza "brufolosa"! Questo racconto è veramente esilarante!
Baci, Dani

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