venerdì 18 settembre 2015

La padronanza



La prima volta che ne vidi veramente uno eravamo in spiaggia.
Era seduto sul molo. Aveva qualcosa in bocca, che colava saliva. Dalla pelliccia grondava acqua salata.
Era lì, perfettamente a suo agio tra la gente, che in effetti si faceva gli affari suoi. Io pensai, ed è l'ultima cosa che ricordo al riguardo, 'Ma se ci fossi io seduto lì, col mio panino, unico esemplare della mia specie per chilometri e chilometri, circondato solo da quei mostri bavosi; sarei capace di essere tranquillo così?'
La tranquillità paga. Sempre. Non vedo altre cause, per la loro proliferazione. È incredibile. Ora sono solo, e sto in mezzo ai mostri tutto il tempo. Prima di incontrare un mio simile passano ore e ore. Certi giorni non ne incontro affatto. Ed è un incubo.
I Mostri, colla loro noncuranza, si sono diffusi. Moltiplicati. Hanno prevalso. Erano carini. L'ultima moda. Parlarne male in società? Impossibile. Ci si trovava subito emarginati. La gente era capace di urlarti contro. Eri uno schifoso, insensibile, crudele, roba da telegiornale e da emarginazione sociale. “Sono così carini!”. “Il mio è intelligentissimo, capisce tutto quello che gli dico!”. Talmente intelligentissimo da farti le scarpe, testa di cazzo sparita chissà dove. Oh, bieco cinfallico. Ora mi trovo a rimpiangere perfino te.
Mi manchi, quando l'alternativa è stare in silenzio per ore e ore. Anche la tua stupidità mi allevierebbe la solitudine. Passo le mie giornate rinchiuso nei loro covi, ad assistere ai loro passatempi schifosi. Giocano. Non so a cosa. Si inseguono, si raggiungono, si saltano addosso e si urlano contro. Penseresti a un pericolo imminente; macché. Dopo poco capisci che per loro quella pantomima è il massimo della gioia. Fanno camminate lunghissime, questo lo vedi quando decidono di portarti con loro. Allora, qualsiasi cosa tu stessi facendo in precedenza, la molli in fretta e inizi a smaniare. C'è il caso che si passi davanti a un Internet Point, uno rarissimo, di quelli che, non si sa come, ancora funzionano. Potresti riuscire a controllarti la email. Devi fare in fretta, perché anche i più tolleranti dopo qualche minuto si spazientiscono e ti strattonano fuori. E se pure ci riesci, la casella di posta è vuota ogni volta, perché la gente è sempre di meno, e quella che c'è non è stata altrettanto fortunata da avere il tempo e il luogo per digitare user name e password.
Io non ricordo, non ricordo. L'ultima cosa che ho ben chiara è quella spiaggia. Poi più niente. Le uscite sono umilianti, oltre ogni dire. Quello che facevi prima di uscire non conta. Decidono all'improvviso, in un attimo si è fuori. Devi fare i tuoi escrementi in fretta e dove capita, e guardare i loro nasi infilartisi nella merda, e le loro lingue assaggiartela; e se provi a cagare più defilato, capacissimi di riportarti a casa infuriati, quegli obbrobri. Si vergognano: cagare defilato non sta bene. Girano con uno strumento apposito, una specie di spatola di legno. 'Spargimerda', lo chiamano. Serve a che la merda spalmata possa essere calpestata, annusata e leccata da più mostri possibile. Opporre resistenza non conviene. Non sai quando sarà la prossima volta che potrai sperare di incontrare un altro essere umano.
O essere umana? Perché gli impulsi sessuali si fanno insopportabili. Squallido a dirsi, ma l'ultima volta che ho incontrato una donna ci siamo subito saltati addosso. È stato un attimo. Ci hanno separato immediatamente. Io sono stato morso, e pure lei. Non vogliono che ci riproduciamo, quei bastardi. Hanno paura di tornare in minoranza. Ne hanno il permesso solo i più fortunati. E fortunati per modo di dire. Quando i Mostri decidono di concedertene il privilegio, è solo per sperimentare nuovi incroci razziali. Una volta durante un'uscita ho incontrato un ragazzino tedesco. Avrà avuto quindici anni, basso e obeso, completamente nudo. Sono rari, quelli di noi che hanno ancora vestiti. Io sono fortunato: sul naso ho addirittura un residuo di occhiali. Era stato messo, mi ha detto, davanti a una cinese di sessant'anni. Alta e secca da fare paura, coi capelli bianchi e i peli delle ascelle dello stesso colore. Nessuno dei due aveva gran voglia di iniziare a darsi da fare. Poi lui, più avido di prime esperienze o almeno immagino, aveva tentato l'approccio. Nulla da fare. Lei gli si era rivoltata contro graffiandolo in faccia, con gran biasimo dei Mostri astanti che laidi assistevano.
Questo mi ha raccontato, in quei pochi minuti che ci hanno concesso. In uno scambio linguistico che avrebbe affascinato qualsiasi glottologo dei tempi andati. Io, del tedesco, non ho mai capito una parola. So solo che ha le declinazioni come il latino. Statura e peso me li ha mostrati a gesti. Il bianco era quello della lurida camicia che indosso tutti i giorni. E i suoi indici che si stiravano gli occhi non lasciavano dubbi: quell'amazzone virtuosa era orientale. Quanto all'età, l'ho dedotta dal gesto con cui quel ragazzetto roseo e paffutello si indicava le mammelle colle mani, abbassandole poi fino all'ombelico. Quelle di lui sì, erano floride.
A questo punto sarai curioso dei miei altri trascorsi sessuali. Ben poca roba, ahimè. Il più delle volte incontro vecchie o bambine, e non mi sembra il caso. L'ultima volta che ho concluso qualcosa è stata con una signora sui cinquant'anni, lasciata sciolta nel parco, come me. Una di quelle signore un tempo perbene, che avresti visto uscire dalla messa la domenica mattina. Chissà dove sono adesso suo marito o i suoi figli. La signora perbene mi guarda. Un'occhiata allusiva, ti assicuro. Io, da lungo digiuno, non disdegno. Ci avvinghiamo. Non ci separano, forse per la probabile menopausa della mia concubina. Li fanno bene i loro calcoli, quei bastardi. L'ho rincontrata, non è mai stata incinta. Forse sono io che sono sterile. Chissà.

Certi di noi hanno funzioni assegnate. Ci usano per assistere i Mostri più anziani. Uno schifo che non ti dico, se pensi che anche da giovani hanno i culi incrostati di merda, e le loro convenzioni sociali vogliono che incontrandosi si annusino e si lecchino sempre lì. Imbocchiamo le loro fauci sdentate, e quella è l'unica cosa buona: non c'è pericolo. Un'altra cosa per cui ci reputano validi è lanciargli oggetti. Li afferrano al volo, riportandoli indietro e pretendendo che gli si rilancino ancora, e ancora. Sembra si divertano. Potrebbero lanciarseli tra loro, penseresti. Ma i loro arti non sono appropriati. Ah, caro vecchio pollice opponibile! Parevi garanzia di ogni futuro successo; e invece. La vera tortura è la costrizione di grattarli. Non ne possono fare a meno. Ti abitui presto ai crampi, e allora cambi mano. Ti danno da mangiare (meglio sorvolare sulle condizioni igieniche, se pensi che i loro arti più prensili sono fauci ributtanti), ma pretendono che gliene passi continuamente bocconi. Una delle tante stranezze della loro etichetta. Ecco che la tua porzione, apparentemente abbondante, si riduce di almeno due terzi. L'unica salvezza è quando escono. Sulle prime, quando capisci che non ti porteranno con loro, ti rattristi. Dovrai rimandare la speranza di incontrare tuoi simili. In più, assisti a scene apparentemente incomprensibili. I Mostri non hanno la concezione del tempo. Quando si separano da te, il commiato è straziante, come se non dovessero rivederti mai più. Tu ci speri, e invece eccoli di ritorno dopo neanche venti minuti.
È tutto inquietante. Ti lasciano stare solo quando dormono. Allora tu ti affacci alle finestre abbandonate, e urli alla notte la tua disperazione. C'è chi chiama i nomi dei propri cari dispersi. Chi piange. Chi bestemmia. Chi suona la chitarra elettrica. Il giorno dopo tra i tuoi padroni Mostruosi e i loro vicini è una gran cagnara, per il chiasso fatto nottetempo. Non di rado c'è chi dissemina hamburger avvelenati nei i luoghi dove ci portano in ricreazione. Io stesso ho più volte scartato una fritturina di pesce appetitosa, ma piena di puntine da disegno. Come se non ce ne accorgessimo per tempo, poveri stupidi. Altre volte pubblicano sui loro social network decine di nostre foto, scrivendo quanto siamo carini. Peccato che le nostre facce, le cui emozioni non sanno leggere affatto, tradiscano noia, disappunto o addirittura orrore. I più eccentrici alla loro morte ci lasciano tutti i loro averi, o li donano alle associazioni di fanatici che pretendono di curare i nostri diritti, che invece ignorano. Grande è allora il disappunto dei congiunti sopravvissuti.
Ci usano per attaccare discorso colle prede dei loro amplessi. “Che carino, il suo! È un cucciolo? Quanti anni ha?”. E anche questa degli anni è bella. Hanno una vita media decisamente inferiore alla nostra, e alla loro morte ci abbandonano del tutto al nostro destino. I più fortunati riescono a scappare, ma al di fuori del consorzio Mostruoso se rintracciati rischiano la soppressione. Più spesso accade di venire tramandati a parenti per i quali sei solo un fastidio, e te ne rendi conto immediatamente dalle loro facce scocciate. Hai fatto tanto per abituarti a un legame, e ora ti ritrovi in balia di estranei. Buona fortuna per i tuoi pasti, e per ogni altra esigenza primaria.
Per le secondarie, incrocia le dita. Le influenze te le tieni. Malattie più serie devi sperare di non prendertele. Te l'immagini, i loro “dottori”, a tastarti con quei loro arti inetti per cercare di capire cos'hai? Hai idea di dove non sia arrivata, la loro “Scienza medica”?
Per loro, tutto si riduce a leccarsi le ferite. Con quelle loro lingue spesse e ruvide. Magari a loro fa pure bene, che so io, ci avranno su degli anticorpi. Ma te la vedi la tua cataratta, a guarire per le loro slinguazzate poderose? O le tue emorroidi? O una cirrosi epatica, un colpo della strega, un – brr – varicocele, una si(gh)filide?

Qualcosa non va. Un essere vivente non dovrebbe mai possederne un altro. Il rapporto non è paritario. L'ignoranza fulmina. Molti dei nostri padroni cercano di intavolare con noi un rapporto affettivo perché incapaci di stabilirne coi loro pari. Si stupirebbero molto di quanto siano inadeguati, se solo avessero facoltà di intenderci. C'è qualcosa che noi abbiamo, di cui loro non hanno idea. Una coscienza. Notiamo tutto quello che succede. Ce ne chiediamo il perché. Non capirlo ci causa sofferenze. Loro invece soffrono delle cose o ne gioiscono, e tutto per loro finisce lì. Che beatitudine.
Ma siamo noi, ad aver iniziato. Abbiamo cominciato per primi la Padronanza. Senza chiederci mai se, in luogo della coscienza, avessero anche loro una sensibilità passibile di sofferenze, se ignorata. E io non ci ho mai fatto caso, se non la prima volta su quella spiaggia.
Schifosi padroni di uomini. Schifosi padroni di Mostri.

giovedì 20 agosto 2015

Nascondino


















Ma, per una volta, parliamo di te.

Tu eri piacente. Addirittura ti percepivi bello, in qualche occasione.
Avevi un lavoro. Dignitoso al punto di non vergognartene, quando ti davi in società. 
Tra mille interferenze avevi finalmente trovato il modo di sintonizzarti su di te. Riuscivi pian piano a capire chi eri. Ti compravi delle cose. Vestiti, mobili, macchine. Ti caratterizzavano.
Andavi in vacanza. Visitavi mostre. Cercavi i libri che ti piacevano e li leggevi, anche più volte, trovandoci sempre cose nuove. La cernita di amici validi e somiglianti ti rassicurava. Riuscivi a individuare le giuste serie tv. Ti iscrivevi in palestra e ti ci allenavi. La tua forma fisica era spesso ineccepibile. Lasciavi trapelare all'esterno pochi elementi studiati e spiazzanti, che ti conferivano un certo fascino.
Eri misurato. Camminavi lento, mettendo la giusta distanza tra un passo e l'altro. La tua schiena era dritta, il tuo capo, finalmente, alto. Guardavi le persone negli occhi, cercando di capire se i teatrini che vi si svolgevano dietro potevano interessarti. Non ti facevi problemi a rivelare i tuoi, quando ti andava, impermeabile a ogni giudizio.
Avevi trovato il giusto equilibrio fra risate e lacrime, dettate entrambe da gioie e dolori. Le piangevi o le ridevi davanti agli altri, decidendo se ti piaceva continuare a farlo a seconda delle reazioni. La tua impermeabilità alla loro pertinenza o all'impertinenza ti faceva sentire forte.
Avevi sviluppato vari modi. Dall'umorismo sgangherato a quello tagliente, dalla battuta demenziale alla più cinica. La tua varietà timbrica ti faceva spiccare. Questo, solo quando di calcare il tuo palcoscenico lo decidevi tu, regalando i tuoi biglietti a spettatori scelti.
Ti davi al gioco creativo. Giocare ti aveva interessato da subito. Nei modi e nei tempi che stabilivi. Avevi scoperto la soddisfazione di inventarne le regole. Perfezionarle. Il numero dei partecipanti si era andato restringendo, fino a farti preferire i più solitari. Costruivi un prodotto. Musicale o pittorico, scultoreo o verbale. Non aveva importanze se non contingenti. Quando ne eri soddisfatto lo ritenevi chiuso, e lo rimiravi. Ogni tanto decidevi di rivelarlo, e gli apprezzamenti eventuali non ti lasciavano indifferente. Ne ricavavi la spinta per altre creazioni in quantità esponenzialmente maggiori della produzione di partenza.
Ti pettinavi colla riga a sinistra. Una volta avevi provato a farla dall'altra parte. Per curiosità. I tuoi capelli non erano convinti, e tendevano alla ribellione. Prima di uscire tentavi abbinamenti cromaticamente convincenti, tra capi di vestiario sceltissimi. Per valorizzare l'altezza, superiore alla media, e gli altri punti di forza del tuo fisico. Ampia circonferenza toracica. Collo muscoloso. Figura slanciata. Spalle larghe. Per la maggior parte del tempo stavi lì a pensare cosa metterti.

La tua vera vita ti stava sempre ben chiusa nella testa.



Adesso non avertene, ma diciamo qualcosa di me. Giusto i tratti essenziali.

Io ero la cosa in agguato. La contrattura al collo, l'automobilista sbadato, il pedone distratto, il burocrate sgarbato, il pianoforte che cade dal quinto piano, il cancro ai polmoni, il genitore cattivo, la sua morte prima di farci pace, l'esame fallito, la pena immeritata, la multa sul parabrezza, il sacco della spazzatura che d'estate si rompe sotto, il proiettile vagante, il cedimento strutturale, il tris che non entra a Risiko, la vera e propria sciagura, l'imprevisto fastidioso.

Che emozione. Ora conto fino a cento e ti vengo a cercare.

sabato 14 marzo 2015

La Grande Esplosione
















La prima volta che provarono a uccidermi non ero che una bambina.
Più che spaventarmi del fatto in sé, m'impressionò che qualcuno avesse desiderato la mia morte, provando a realizzarla con violenza estrema.
Fu un trauma. La prima di mille altre volte, alle quali non mi abituerò mai. Se non quando nulla potrà più contare.

Il terrore spietato con cui ci fuggono.
L'accanimento pazzo con cui ci danno la caccia.
Sarebbe ridicolo, se non fosse letale.
Eppure, che io sappia, la mia tribù fra tutte è l'unica che non uccida per nutrirsi. È nostro punto d'onore non recidere vite, per alimentare la nostra.
Ci nutriamo di spirito. Ci muoviamo lentamente. Ci cibiamo della vicinanza. A sostentarci basta la prossimità delle persone che più ci piacciono.

Dopo la Grande Esplosione sviluppammo le nostre facoltà. Come tutti.
Ad alcuni crebbero zanne. Ad altri artigli. Chi sviluppò corazze, chi raggiunse assurde velocità di fuga. Aculei, pungiglioni, tentacoli ributtanti. Un numero di arti sempre nuovo. Le mutazioni variarono ogni specie vivente.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Siamo tutti dei mal-viventi.

Non siamo stati fra i più fortunati. L'unico dono che ci è toccato in sorte è una capacità straordinaria di adattamento all'ambiente. E altre varie prerogative, buffe o penalizzanti.

I nostri maschi vivono poco. Pesanti e impacciati, sono i primi a soccombere. Il loro canto ci attira. Cantiamo anche noi; canti dolcissimi. Acuti, in giovane età. Più gravi quando siamo sessualmente mature. La sintonia ci fa accoppiare. Come tutti. Il seme che riceviamo nel primo accoppiamento sarà quello che ci feconderà per tutta la vita. Ma potremo riaccoppiarci per provare piacere.

Non siamo in grado di regolare il calore corporeo. La nostra temperatura dipende dall'ambiente circostante. Ai primi freddi entriamo in uno stato letargico, rallentando le funzioni corporee e interrompendo temporaneamente la crescita. Il nostro organismo rimane inattivo. Non si alimenta e non si muove. Trascorriamo così la maggior parte della nostra esistenza, viste le precipitazioni improvvise e le bizzarrie di un clima sempre più cagionevole. Nonostante le condizioni ostili, vogliamo solo sopravvivere. Come tutti.

Ci accusano di portare malattie. È falso. In altri luoghi forse, o in altri tempi. E comunque, mai consapevolmente. È colpa nostra se batteri e virus ci usano come veicolo? Credono forse, quelli che puntano il dito, di esserne immuni? Si sono mai chiesti a quanti esseri risultino mortali, e in modi meno inconsapevoli? Non giustifichino il loro odio con le menzogne.

Quanto a noi, mortali lo siamo solo per nostro conto, e per loro contributo.
I più ingenui provano a esorcizzarci attraverso rituali. Accendono fuochi, bruciano essenze. Adornano le loro case di piante che dovrebbero tenerci lontani. I loro scienziati deviano corsi d'acqua che ci sono necessari. Provano a eliminarci spargendo veleni, che intossicano essi stessi. Sterminano acri delle loro terre, continuando a cibarsi dei loro frutti assassini. Potremmo riderne. Sarebbero risate amare. Ma i nostri sorrisi sono spenti da tempo.
Si sono fatti più furbi, e mille volte più crudeli.

Hanno studiato sostanze nuove, innocue per la loro prole, che inibiscono lo sviluppo della nostra. Se solo vedessero lo scempio che hanno fatto. Cosa direbbero le loro madri, tenendo al seno nidiate di malformati? Hanno selezionato razze di predatori, disseminandoli nelle terre che abitano, a loro stesso rischio e pericolo. Tentano di modificarci geneticamente, nella speranza inumana di selezionare spermatozoi in grado di generare soli maschi.
Quando possono, non uccidono sul colpo. Amano bruciarci in parte, strapparci gli arti e lasciarci vivi, per farci monito di ogni sopravvissuto. Come possono convivere con loro stessi? Non si fanno orrore? Come possono allevare figli, assistere anziani, amarsi addirittura, coi segreti orribili che tanto fieramente sbandierano? Hanno perso completamente ogni coscienza? Non rispettano niente, non temono nessuno. Non potrebbero un giorno condividere lo stesso destino?
Questa è la mia speranza. Né più né meno quanto spetta a noi oggi. Qualcuno, qualcosa, che riservi loro lo stesso Fato. Senza mai arrivare a capire perché. Dover scappare, vivendo sospesi nella minaccia di mille torture. Dover sapere che si lavora alla loro estinzione. Sfacciatamente. Senza che ci si possa mai fare niente. Verrà un giorno che le mutazioni non saranno più a loro favore esclusivo. Altri organismi prevarranno. Si sveglieranno fuggendo, e dormiranno nell'incertezza del risveglio. Conosceranno l'Orrore a cui non ci si abitua. Conviveranno con l'odio spietato dell'Oppressore. Peggio: con la sua indifferenza. Non è lontano il momento in cui >|<



"T'ho presa, puttana succhiasangue", disse l'uomo in pigiama guardando la macchia spiacciacata sul quotidiano sportivo.
“Dai Nick, levati gli stivali e torna a letto. Anzi, mmm: no. Tienili.”



domenica 22 febbraio 2015

Il prigioniero


















Si rende conto all'improvviso. Staccare un frutto da un albero, inseguire una preda fino a cibarsene, non gli basta più. Guarda le cose che lo circondano come se fosse la prima volta. Se ne accorge.

Non si accontenta dei ripari naturali. Poggia le pietre una sull'altra, e quelle crollano. Le fissa con materiali pastosi, che si seccano separati dal suolo. Lui, non si secca mai. Neanche se il tetto crolla. All'inizio sono frasche e rami. Poi, pezzi di legno più piatti, incalcinati. Il vantaggio è portarsi il domicilio nei posti migliori. Vicino a un corso d'acqua, per esempio.

Escogita esche, ami, lacci e tagliole. Poi punte, lance, frecce. Le bestie catturate lo nutrono, la loro pelle lo copre dal freddo. Teme il fuoco appiccato dai fulmini. Ne intenta cause, trascendentali e terrorizzanti. Poi ne ruba un pezzo, traendone sapore e consistenza dei cibi, e calore per le sue sere.
La pelle degli animali, tenuta assieme da alcune delle sue parti, o dalle fibre intrecciate di alcune piante, serve a contenere. Il budello che avanza può legare, e se teso emette suoni. I suoni diventano altri, se ne varia la lunghezza. Più gradevoli, raddoppiandola o dimezzandola.

Formalizza tensioni, individua rilassamenti. Scopre dissonanze e consonanze. Conferisce forma alla materia che non ne ha. La riempie di liquidi, che può bere o conservare. La percuote, ed essa risuona. Ne varia il livello, che diminuito acuisce le risonanze, e le aggrava se aumentato.
E non si ferma, non si ferma. Graffia vetri, incide argille, smidolla ossa e ci soffia dentro. Appuntandosi ogni volta relazioni quantitative per le sue note. Schivando le derisioni e i tuoi bullismi secolari, incurante della polvere di gesso che gli ricopre la schiena per le stolide cancellinate con cui lo bersagli. I venti lo erodono, la pioggia lo bagna, il caldo gli secca la gola e il sole ne brucia la cute. I terremoti lo agitano, le bufere lo seppelliscono di strati ibernanti, le foreste si infiammano costringendolo, lui predatore, a scappare con le sue prede.
Ma lui suona e suona. Ogni volta che può. Ferma le circostanze e si rimette in ballo, sciamano più forsennato di prima.

Certi suoi oggetti lasciano il segno. Specie se graffiano le pareti. Lui inizia a ritrarre lo sguardo dalle cose. Ritrae profili. Ritratta le essenze. Se ne compiace.
Tenta articolazioni, studia fonemi. Arrota la lingua sul palato, soffia l'aria tendendo le labbra e stringendo i denti. Fatica e sbuffa, ma alla fine racchiude concetti. Progetta simboli che scorrono liquidi e s'imprimono sulla carta, o si scavano nella pietra. Ferma riflessioni, trasmette esperienze. Si accorge che la funzionalità dei suoi ricoveri non gli basta più. Ne progetta l'estetica, e nel frattempo la inventa. Sceglie colori e tagli, per mettersi finalmente nei suoi panni. Si costruisce un suo gusto, letteralmente.

Ma i suoi successi gli attirano invidie. La sua alacrità disturba. Il formicaio si è alzato troppo, per appartenere a progenie di naufraghi. La giusta punizione è il crollo, di speranze e fatiche. Nelle previsioni del distruttore, nulla potrà riprendersi dallo sfacelo.

Invece no. Le briciole di quella Babele arrogante si disperdono in mille colonie. Le parole diventano milioni. I pensieri, miliardi. Nessun piede ciclopico può mai pensare di schiacciarle.

E tutto questo non basta. Non basta. Il più infimo dei granelli di sabbia cela universi, intollerabili da ignorare. Gioca di lenti, calibra fuochi, accede a visioni minime e incommensurabili. Vede l'essenza nei grani della materia, e come il bambino più capriccioso gioca a spaccarla. Piange lacrime coerenti alla rottura volontaria dei suoi giocattoli subatomici, ripromettendosi di imparare dagli errori.

Lo fa danzando, cantando, raccontando. Correndo, nuotando, addirittura volando; e sempre più spesso, per il puro piacere di farlo. Il suo vortice dissennato non so davvero dove lo porterà.

Certe volte si ferma. Sta lì a ragionare. Non gli torna la morte. La sua e quella degli altri. Perfino quella delle prede che lo alimentano. Pensieri che lo muovono a discussioni e scontri. Talvolta a guerre.
Non gli torna la malattia. Il perché delle stagioni. Non il come: il perché. Il loro ripetersi. A che scopo? Perché decadere, dopo cotante crescite?
Anche il suo gioco. A che pro, scegliere colori? Curare parole? Accostare suoni? Cambiare la biancheria? Progettare comodità sempre migliori?
Il loro conseguimento. Cosa porta? Possibile che il fine sia il solo giocare? Tutto si riduce solo a questo? Un gorgo tentacolare, un gigantesco traumatico assurdo Gioco dell'Oca, in cui le strategie si riducono a fortunati tiri di dadi, e la punizione peggiore spetta a chi giunge tronfio alla vacuità dell'ultima casella?

Cade, si rialza. Inciampa, e ride del suo inciampare. Vive i suoi drammi e disegna i suoi miti, che assurgono a forze primordiali mangiando spinaci, e tornano inermi come neonati qualora prossimi alle kriptoniti. E rileggendoli ne trae diletto, se ne compiace. Costruisce e distrugge, incurante dei roghi bigotti e delle persecuzioni con cui cerchi di ostacolarne lo spirito insaziabile.

Io che osservo senza interferire sto qui. Prigioniero della vertigine.

domenica 21 dicembre 2014

Allusioni ottiche




















La gente fa battute che non fanno ridere. Eppure ride.

Dice sempre le stesse cose. Sostiene opinioni di seconda mano, con enfasi da programma televisivo. Vive vite, in effetti, più difficili da mandare giù di qualsiasi fiction.
Crede di avere dei problemi, e invece ne ha altri. Desidera cose contrastanti e inarrivabili. Non asseconda i propri interessi. Anzi, se li lascia atrofizzare da suggerimenti esterni, generatori di profitto altrui. Da qualche parte deve nascondersi qualcuno, struttura o individuo, che di tali marionette muove i fili.

Questo la gente lo sa benissimo. Mica la freghi, la gente. Tu organizzagli una fila alle poste il sabato mattina, o un convoglio ferroviario bello pieno, con l'aria condizionata che non funziona. Vedrai quante gliene dice, ai suoi burattinai. Ma dopo lo sfogo dimentica l'azione. Le scie chimiche hanno inibito i centri nervosi. Decenni di irrorazioni hanno prodotto frutti ormai maturi. 

I cartelloni pubblicitari sfoggiano seni perfetti, carnagioni abbronzate, mandibole quadrate. La gente cerca invano questi dettagli nel proprio partner. Nei teleschermi sfilano magrezze impossibili. Sulle riviste i cronografi scandiscono il loro tempo senza sconti, e le macchine sfrecciano patinate di pagina in pagina. I vestiti sono costumi di scena. I cellulari, l'unico mondo che valga la pena abitare.

I grandi valori li hanno accaparrati da tempo. Non ce n'è più uno libero. L'ultimo se l'è preso quel partito politico che, per una brutta storia di tangenti, ha dovuto cambiare nome per penitenza.

I politici basano le campagne elettorali sulla lotta alla piccola criminalità e sulla paura dello straniero. Una volta al potere, lucrano su campi nomadi e centri di prima accoglienza. I controllori stampano biglietti falsi. I lavori pubblici durano e costano dieci volte tanto, ingrassando cortigiani al limite del malavitoso. I terremoti generano indotti illeciti. Come pure le alluvioni, cui viene sempre assegnato un nome.  Per gratitudine, con tenerezza.

La gente invidia chi sta meglio. Controllori e politici. Chiunque sia più forte, più potente, più ricco, più bello, più pronto nelle risposte. Ma le scottanti rivelazioni dei giornali scandalistici ne rivelano le miserie, e tutto si ridimensiona. D'altra parte nessuno sta mai troppo bene. C'è sempre qualcuno più in alto, da invidiare. E se manca, c'è il rischio di capitombolare verso il basso. Rispuntano i sorrisi, ci si sente migliori. Si torna a votarli, abbracciando faziosità di stampo calcistico ereditate da  amici e parenti. Senza notare che almeno i tifosi hanno azioni da commentare, belle giocate e preziosismi tecnici, gol realizzati o errori arbitrali che non li hanno assegnati. Ai votanti per scaldarsi bastano le tribune elettorali.

Fatti salvi alcuni campioni di mimetismo, e alcune uova deposte in nidiate non pertinenti, in natura l'unico animale che pensa per tutto il giorno a camuffarsi è la gente. Maschera la propria autenticità e le proprie voglie, perché è très chic. Vive nell'adulterio del proprio sé, e chiama 'bestie' esseri colpevoli di vivere serenamente i propri bisogni. Nasconde la fame, sorvola sulla sazietà, glissa sul desiderio di copulare ma in realtà non pensa ad altro. Sonda le debolezze del prossimo con pseudoumorismi gratuiti, per ingranare frettolose marce indietro davanti a una mala parata. Copre zanne e ritrae artigli, negando con sdegno ogni istinto aggressivo. Invece di sfogarlo per pochi attimi e poi rilassarsi, lo cela nelle contraffazioni nei social network, lasciandolo trapelare a ogni istante.

Chi va a vedere mostre, guarda film o legge libri, lo fa per moda. Gli intellettuali consultano oroscopi. Si sopporta la periodicità degli scioperi. Ci si lascia addomesticare dalla serialità di sport recitati. Siti di e-commerce e catene di santantonio violano le caselle di posta. Le orecchie si abituano ad avere rumore per sottofondo, mentre in TV scorrono caroselli di adesivi per dentiera. All'ora di cena, naturalmente.

I cervelli vanno in poltiglia. Si vive un breve momento di forma. Ineccepibile, lo si riconosce a posteriori dalle foto. Prima e dopo ci si piscia addosso, si articolano male le parole, si ride quando si dovrebbe piangere e si piange quando sarebbe opportuno ridere. La piena maturazione è stata un attimo. Una breve stagione di bellezza, vigore mentale, funzionalità fisica, e rien ne va plus. L'unico culmine a cui si arriva e da cui ci si allontana con due salite, entrambe impervie e interminabili, ma a ben vedere cortissime, il cui demiurgo sarà senz'altro un Maestro delle allusioni ottiche.

Forse più coscienza aiuterebbe. Ma non troppa, che un eccesso di lucidità potrebbe rivelarsi fatale.
Quindi tutto funziona alla perfezione.

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“Bene bene bene”, esclamò Mangiafuoco, sfregandosi le mani. “Ancora un po' di esercizio e il mio teatrino mi renderà un bel mucchio di quattrini. È la volta buona che riesco a emigrare da 'sto mortorio di Iperuranio”.



domenica 9 novembre 2014

Rinofobia















C'era una volta un tizio che non sopportava di vedersi sempre tra gli occhi il naso.
Il suo nome era Mynus Habens. 'Mynus' per gli amici, se ne avesse avuti. Il suo campo visivo variava, di volta in volta. Cose più o meno piacevoli. Ma al centro sempre la stessa. Il naso.

Poteva vederne i due lati a seconda dell'occhio che chiudeva. Quando era il sinistro vedeva il neo che aveva sul lato destro. Sul lato sinistro invece non c'era nulla di rilevante.
Queste operazioni le faceva di rado, e affannosamente. A farle troppo spesso rischiava d'impazzire. Poteva vedere varie cose, della sua faccia. I baffi. Il labbro superiore, e quello inferiore. Parlo chiaramente di un'ispezione senza specchi. La lingua. Il mento invece no. Niente mento. E la punta del naso.
Il resto del naso era solo un'ombra. Ma perenne. Era questo a essere inaccettabile. Parlavi con qualcuno, e l'ombra del tuo naso si metteva in mezzo. Guardavi un film, e la fotografia doveva fare i conti con sempre la stessa macchia sfumata, al centro della scena. Leggevi un libro, e tra le pagine c'era sempre lo stesso ectoplasma.

La fortuna era che il più delle volte non ci faceva caso. Quando ciò avveniva, non poteva tollerarlo. Non riusciva a respirare. Se era sdraiato nel suo letto, doveva tirarsi su col busto di scatto bestemmiando, e fare almeno un respiro totalmente profondo. Se non era nel suo, di letto, la cosa era più imbarazzante. Succedeva così. Il fiato gli mancava  di colpo. La riscoperta del naso gli cortocircuitava i polmoni. L'aria finiva all'istante. Era strano. Gli sembrava di ricordare che da piccolo riusciva a stare con la testa sott'acqua per più di un minuto. Non che gli piacesse molto farlo. Non aveva mai sopportato le costrizioni, fisiche o psicologiche. Postumi di un'educazione repressiva. Provava l'apnea per gareggiare cogli altri bambini, e da grande per immergersi sott'acqua quando faceva il bagno. Era come volare. La sensazione di libertà compensava la claustrofobia di avere masse d'acqua sempre più grandi tra il respiro e la sua possibilità.

Un'altra cosa che andava bene, quando il naso tornava ad imporsi alla sua attenzione, era una corsa forsennata. Uno scatto improvviso, possibilmente all'aperto. Il cuore che batteva all'impazzata e il fiato mozzato lo distraevano. Anche guardare il cielo andava bene. Verificare che c'era almeno una via d'uscita, infinitamente vasta. Quel cazzo di naso. Poteva tagliarselo, non credere che non ci avesse pensato. Ma purtroppo era sano di mente. Era chiaro che avrebbe introdotto problemi più grandi. Per esempio, la luce poteva riflettersi all'interno della cavità nasale e accecarlo col suo riverbero. Oppure, avrebbe avuto addosso gli sguardi più o meno indiscreti della gente. Hai mai visto le facce della gente? Sono brutte. Mynus ci faceva caso spesso, ma di solito si fermava prima di arrivare a pensare che tecnicamente era gente pure lui. Poteva esserci qualche crema che gli offuscasse i contorni del naso? Probabilmente no. I colori riflettono la luce, come il bianco. O come il nero la assorbono. Tinture trasparenti non sono ancora state inventate.

Il problema poteva accrescersi. Con la stessa logica, allora, poteva sicuramente vedersi le palpebre. L'interno, intendo. Non avrebbe mai visto nessun'altra palpebra dall'interno. O magari sì, se avesse adottato soluzioni da maniaco seriale. Ma era troppo normale, per infilarsi in vicoli ciechi dalle conseguenze più problematiche che vantaggiose. Per non parlare delle implicazioni etiche.
Allora faceva caso anche alle palpebre. Cercava di capirne il colore. Erano pensieri che non potevano durare più di mezzo secondo. Oltre, c'era la morte per soffocamento.

Aveva ipotizzato un color carne particolarmente rosso e sanguinolento, come quando cerchi col fazzoletto di tirarti fuori un ciglio dall'occhio. Poi si era ricordato che nessun colore si può vedere al buio. Quindi aveva accantonato il problema delle palpebre con un certo sollievo, per tornare a occuparsi di quello del naso.

Il naso era un organo che faceva senso. In tutti i sensi. Impossibile tagliarselo. 'Come farà chi ha il naso aquilino?', si domandava. Il suo era retto. Un bel naso, dicevano. Forse era fortunato chi ne aveva uno rincagnato, da pugile. Doveva essere un sollievo, poter fissare in eterno un ectoplasma di dimensioni più discrete. Forse non si vedeva per niente.
Ma anche un puntino sarebbe stato sufficiente per impazzire.

Le palpebre erano più simpatiche. Ma celavano altre insidie.
Hai presente quando ti stendi al mare, e finalmente ti rilassi? Cioè, tu vorresti rilassarti. Poi, gli occhi che hai chiuso tornano a vedere. Cellule. Maledette. Sono capelli, sembrano capelli. La lunghezza è maggiore dello spessore. In mezzo c'è un punto. Non può che essere il nucleo di quelle cellule. Se butti gli occhi in su, le cellule schizzano in alto. O in basso. O di lato. Non puoi mai spegnere il proiettore. L'unico modo di farle sparire è aprire gli occhi, e riarrotolare lo schermo. Ma certe volte continui a vederle anche controluce, e allora anche lì l'unica è alzarsi di scatto, buttarsi in acqua e sperare di finire addosso a qualche medusa.

Ma niente è insidioso quanto il naso. Ogni tanto Mynus andava allo specchio a guardarselo.
Ecco là il neo, sulla parte destra. O era la sinistra? Doveva pensare alla sua, di destra, o a quella del tizio che aveva di fronte? Quello, se si fosse distolto dal guardarlo fisso, si sarebbe girato portandosi appresso il neo sulla sinistra. Misteri troppo grandi, per venirne a capo.

Non c'era solo l'ombra del naso. Per esempio, nessuno sembrava mai far caso alla morte. La propria, intendo. Sempre quella degli altri, e solo quando non se ne potesse fare a meno. Mynus invece era assolutamente preso dalla sua morte. L'unica discrezione che lei gli usava, era non venirgli in mente in continuazione. Era meno presenzialista di certi nasi. Quando Mynus pensava alla sua morte, non riusciva a vedere altro. Perché radersi o lavarsi, perché studiare o lavorare, se non per lo stretto indispensabile? A che pro amare, odiare, indignarsi o primeggiare?

Mynus allora si guardava intorno. Non aveva mai visto nessuno tanto ignorante da ignorare una cosa così. Nessuno sembrava pensare alla propria morte. Tutti sarebbero morti. Nessuno sembrava turbato dalla comparsa nel campo visivo del proprio naso. Possibile che fossero così distratti? O sapevano qualcosa che Mynus ignorava? Qualche trucco, o qualche informazione supplementare?

Secondo Mynus, era impossibile essere così ignoranti. Della propria morte, e di quelle altrui. Troppe cose si facevano tutti i giorni, completamente falsate dal non tener conto della morte di ciascuno.
Mynus aveva una teoria. Ognuno dovrebbe aver su un numero. Chi 65, chi 21, chi 84. Metti che due si prendono colla macchina a un incrocio. Senza quel numero, è subito un gran litigare su chi abbia la precedenza. Con quei numeri, invece, 84 sarebbe molto più conciliante con 65. “Mi dispiace di essere passato proprio in quel momento” - “Ma no, cosa dice, colpa mia che non ho visto il rosso” - “Beh, poco male, tanto la macchina è vecchia, non sarà un graffio a cambiare le cose”.
Invece, tutti litigavano. Anche senza motivo. Tutti in competizione, tutti contro tutti. I furbi contro gli etici. I forti contro i deboli. I poveri contro i ricchi. Scordandosi quotidianamente le proprie morti si perdeva regolarmente la prospettiva.

Ma era meglio che il numero indicasse l'età della propria morte, o gli anni che rimanevano da vivere?
Mynus aveva riflettuto, al riguardo. Avere addosso gli anni mancanti richiedeva aggiornamenti annuali e scomodi. L'evidenza sarebbe stata inelegante. Meglio segnalare l'ultimo compleanno, lasciando agli astanti il beneficio del dubbio, a seconda di quanto uno si portasse più o meno bene gli anni.
Mynus aveva sempre un sacco di buone idee, quando non gli veniva in mente il naso. O forse era proprio il naso, colla sua impertinenza, a impedirgli di distrarsi. Di perdersi in frivolezze. Non era il caso, per esempio, di lanciarsi in avventure sentimentali. Ci pensi? “Ehy bambola, è tutta la sera che ho voglia di baciarti” - quando all'improvviso ecco frapporsi il naso. Il giorno dopo, tutti avrebbero parlato dello scatto furioso di Mynus. E a Mynus avrebbe dato fastidio.

Non so. Non era un mondo adatto. Mynus avrebbe trovato ragionevole vivere in un posto dove un terzo degli abitanti per volta si lanciasse in scatti forsennati in direzioni varie, non appena resosi conto del naso. Un mondo in cui fosse normale sedersi e fissare il terreno senza sorprendere i passanti. Sentendoli al limite commentare “Eh, gli è venuta in mente la sua morte, chissà quando ventura”. E invece non aveva mai sentito nessuno preoccuparsi del proprio naso, se non per il punto di vista altrui. Gli occhi delle persone non rilevavano cellule, o almeno nessuno sembrava preoccuparsene. E molti si tatuavano cose sulla schiena, o in altri punti dove non se li sarebbero mai visti da soli. Che orrore. L'unica cosa che, facendo uno sforzo enorme, lui si sarebbe tatuato, era da spalla a spalla, in caratteri gotici e scarsamente leggibili.
'Fesso chi legge'.

A un certo punto, nel vivo di quei ragionamenti, il naso smise di comparirgli. Fu quando Mynus scoprì il numero che avrebbe dovuto portare lui.

domenica 26 ottobre 2014

Il problema













era avere la ragazza. Era un bel problema.
All'inizio era bello. Grembiulini rosa vs grembiulini blu. Chiarezza dei ruoli. Per Faber Quisque i primi giochi erotici colle bambine dell'asilo arrivarono presto. E definitivi, per un bel po'.
Le prime avvisaglie del problema si manifestarono dopo poco. Alle elementari.
Quando si giocava, tutto andava bene. Macchinine, robot, nascondino. Perfino a pallone. Poi in Quinta alcuni genitori avevano avuto la pensata di mettere su della musica, per BALLARE. Niente giochi in cameretta, niente giochi in cortile. Adesso si era in ballo, e bisognava BALLARE. Gli altri bambini partirono subito, come se per entrare nella fase successiva non bisognasse che accendere un interruttore. Roba di istinti, cose così. Era incredibile. 'Come potete preferire il BALLARE al giocare?', dicevano gli occhi del piccolo Faber, carichi di rimprovero silenzioso. 'Nel giocare ci si diverte. È ovvio. Dovrebbe piacere anche a voi. È sempre stato così'. La risposta degli altri bambini, un'alzata di spalle. Come a dire, ' È vero, ma che ci possiamo fare?'. 'Porco dio' avrebbe pensato Faber, se avesse assaporato già da allora il gusto illusorio del Vilipendio.

Ma lo avrebbe conosciuto. Ancora qualche anno. Successivamente si iniziò a fare più sul serio. Alle medie passavano tra i banchi sciami di bigliettini. “Ti vuoi mettere con me?”. Casella , casella No. Si suggeriva implicitamente di barrare quella di proprio gradimento. Sarà stata la veste ufficiale - chi può resistere a una burocrazia ben formulata? Sembrava funzionare. Nascevano delle coppie. Partivano i primi baci.
Qualsiasi gioco per Faber era ancora da preferirsi.

Fu forse per la sua indole altezzosa e giocherellona, che per Faber fu sempre così difficile? Quella palestra poteva aiutare. Ma perché snaturarsi, se si preferiva altro? Alla fine, interessarsi alle ragazzine poteva ancora valere una presa in giro. Si era giustificati, ancora per un po'.

Invece al liceo c'era poco da ridere. Potevi non avere i vestiti giusti. Essere basso o sovrappeso. Avere la forfora o i brufoli. Magari non avevi neanche il motorino. Che sfortuna micidiale, quando il discorso-ragazze per tutti diventava interessante. Quindi via, si tirò fuori dai giochi. Quello che gli ci voleva era un compagno di banco che avesse pescato dalla sua rosa di problemi contingenti. Meglio non gli stessi. Sarebbe stato ridicolo.

Finito il liceo, lavorò sui suoi difetti. Cercava di affrontare le cose con logica, e non emotivamente. Anche se spesso per tante cose aveva intuito. Un ottimo intuito. Ma lo relegava nella sfera del Gioco. Certi difetti svanirono da soli. Altri richiesero sforzi non indifferenti. Forza Faber, ce la puoi fare. Basta avere volontà. Il fatto è che potresti non averne. Oppure, trovandola, ti ci metti con tanta intensità che alla fine perdi di vista il quadro. Continui a concentrarti sull'aspetto fisico. O sui vestiti, ai quali negli anni si aggiungono macchine e cellulari. Ti do una dritta, se sei ancora in tempo. Se metti a punto l'aspetto fisico, poi ti cercano per l'aspetto fisico. Se investi in un'automobile, entri in concorrenza con quelli che ne hanno sempre di migliori della tua. Per non parlare dei cellulari, più dozzinali e alla portata.
Nel tempo, con la sua logica stringente, Faber capì tante cose.

Ogni tanto faceva il punto della situazione. Mica da solo. Crescendo, si era scelto degli amici. Pochi. Ma accuratamente. Avevano in comune il suo problema: non avere una ragazza. Erano stati bassi o grassi, o brufolosi, forforati, malvestiti, timidi. Certo in quelle condizioni non puoi mica frequentare gli altri. Lo capisci subito. A Faber bastò accettare un invito una volta, e ritrovarsi unico a un tavolo di sole coppie. Il primo di innumerevoli minuti interminabili lo convinse ad autoghettizzarsi per molti anni a venire.
Si prese Al Terego. Era quello con cui chiacchierava meglio. Invece di studiare e passare gli esami all'università, progettavano gruppi musicali. Vacanze. Uscite. Concerti. Ci andava a mensa, a correre al parco, a comprare vestiti. Qualche volta addirittura a frequentare le lezioni. Sperando di incontrare ragazze ben disposte. Sono tutte buone idee, non possono che aiutare. Poi, a fine serata, facevano le ore piccole nel parcheggio del mercato, per parlare. Il tema era: ma come si fa ad avere la ragazza? Come si farà mai? Avevano sempre nuove idee, trovavano un sacco di spunti. Ci riflettevano su. I metronotte li guardavano con sospetto. Ogni tanto la polizia gli chiedeva i documenti. Ne avevano ben donde, la situazione suggeriva che come minimo si stessero facendo delle gran canne. Una volta Faber li aveva sentiti dire allontanandosi “Saranno froci”.
Ma perché dovete fare i coatti? Che razza di bestie ignoranti siete? Al mio amico qui GLI È MORTO IL PADRE!”.
Nessuno dei due pronunciò mai la seconda frase, naturalmente.

Stava sempre cinque o dieci anni indietro, Faber. 'Chissà se si vede, quando cammino per strada,' pensava, 'quanto cazzo sono solo'.
Provava tutto. Corsi di lingua, balli di gruppo, villaggi turistici frequentati da single. Aveva le sembianze dell'Uomo, ahah, che ridere. Ma era piccolo, piccolissimo. Da grande voleva fare quantomeno l'Astronauta, e nel frattempo qualsiasi altra cosa faceva parte del provvisorio. Ma fare l'Astronauta dà le nausee e le vertigini, e Faber aveva lo stomaco debole. Soprattutto, voleva ancora giocare. Certe risate si facevano, con Al.
Anche da solo, Faber sognava. Sognava in continuazione. Al suo risveglio le cose restavano quelle. Un lavoro. Le vacanze. La musica. Sempre le stesse persone. 'Se almeno facessi un'altra vita', pensava, 'conoscerei nuova gente'. Poi quando capitava, era lui a essere lo stesso. Sempre 5-10 anni dietro, spesso 5-10 anni avanti. La gente lo annoiava, lui annoiava la gente. Starne lontano era più divertente.

Alla fine l'Universo sfinito decise che anche la sua ora era giunta.
Nel senso buono, intendiamoci. Aveva già avuto qualche storiella, durata poco e abbastanza. Mica era malaccio. Aveva un fisico atletico e bei capelli. Una faccia tagliente ma interessante, come sono interessanti le cose irraggiungibili. Era meglio così, perché quando cercava di farsi raggiungere da qualcuna, evidentemente gli fiorivano sul viso espressioni scoraggianti. Ma si vestiva con un certo gusto, e la sua macchina e i suoi cellulari erano sempre almeno nella media.
Nella smania di ficcarsi nelle situazioni, Faber si era iscritto a una palestra di pugilato. Iniziò quasi subito a frequentare le cene del gruppo. A una di queste, un tizio occhialuto si era portato appresso una conoscente, che andava a un altra palestra. Era un po' sovrappeso. Sembrava avere un culo sul grosso, ma aveva la vita stretta. Quindi valeva anche avere il culone. Aveva anche un viso rassicurante, era importante essere rassicurati. E delle tette enormi. Gigantic tits. Entrambi soffrivano di gigantic tits. Faber era seduto da un'altra parte, ma poi a fine serata si era messo a chiacchierare con il tizio. Dopo qualche attimo eccoli lì, loro due soli, a fumare fuori dalla pizzeria. Lei si chiamava Sue Fortune.

“Così tu fai Karate, eh? Ma combatti, anche?”
“Sì, certo. Sono fortissima.”
“Ma sparring, o proprio combattimenti?”
“Combattimenti. Guarda i segni che ho sulle tibie. Tocca.”

Faber toccò, dimenticando all'istante tutti i suoi giochi. Non trovò nessun segno. Solo pelle, liscia e chiara.
Mentre la riaccompagnava a casa, qualcosa lo turbava. Aveva a che fare con il tizio occhialuto, e la poca classe con cui gli aveva sottratto la conoscente. “Ecco, parcheggia là, che qui non si trova mai un posto” disse Sue, facendogli dimenticare l'argomento su cui ragionava.

In macchina chiacchierarono molto. Lei era stata sposata, e aveva un figlio. Di cinque anni. Sembrava ferita da un abbandono, e ogni tanto il suo odio recente per il genere maschile trapelava. Però la sua faccia era rassicurante. Le sue tibie, segnate di segni invisibili. Le sue tette, gigantiche. Parlarono e parlarono. Spesso lui riusciva a farla ridere. Aveva un umorismo basato sull'essere serio e dire cose surreali. Faber si godeva tutto quel parlare. Ne aveva, di cose da dire. Ne aveva anche da ascoltare. Anche lui aveva qualche recriminazione, nei confronti dell'altro sesso. Quel ballare prima del tempo. Quel dismettere frettoloso i grembiulini segnaletici. Ogni sillaba era un ulteriore sintonia. Ma Faber immaginava che il ruolo di esploratore di faccende più concrete sarebbe toccato a lui.

Era un problema nel problema. Aveva una gran voglia di dire, ma anche di fare e baciare. Solo che non gli era mai stato chiaro come passare al secondo quadro. Come se per prepararsi a un incontro con Mike Tyson sapesse di dover mangiare uova sode a colazione, uscire presto per almeno un ora di corsa, saltare a corda, e a un certo punto andare direttamente al metterlo al tappeto.

Così il tempo passò, e alla fine era tardi.
Ti accompagno al portone.
È tardi. Sei sicuro?”
Mi sembra di sì.
Uscirono dalla macchina, arrivarono a un incrocio.
Dobbiamo attraversare. Dammi la manina.

Lei magicamente gliela diede. Era da un po' che Faber aveva la sensazione che per superare qualsiasi tabù bastasse decidere di farlo. Si avventurarono sulle strisce pedonali, lasciate sole dalla notte silenziosa.

Ma tu, davvero avresti attraversato senza darmi la manina?
Lei lo guardò incerta.
E se io fossi scappato per la strada, e una macchina mi avesse messo sotto, che avresti fatto? Andavi da mia madre, e le dicevi” - mise le mani a coppa, stendendo le braccia avanti - “Signora scusi, lei non mi conosce, il fatto è che mi è scappato suo figlio mentre attraversavamo la strada, mi dispiace tantissimo, gliel'ho riportato, eccolo.

Lei rideva sempre più, scordandosi di quanto quella manina condivisa fosse compromettente. Lui restava serio. Finirono di attraversare quella strada geniale.
A tua discolpa va detto che hai una manina molto soddisfacente. Ti dispiace se la tengo ancora un po'?

Chiaramente, niente di questo avvenne per davvero. Arrivati sotto casa, Faber la prese nervosamente tra le braccia e la baciò.
Si baciarono sotto il portone di Sue per almeno mezz'ora, finché lei dovette salire perché era in ritardo con la baby sitter.

Insomma, sai come vanno queste cose. No?
Si misero insieme. Dopo una lunga fase di studio, Rex, il bambino di Sue aveva deciso che Faber era simpatico. Non è che si sforzasse, Faber. Semplicemente gli parlava come avrebbe parlato con chiunque gli interessasse. Lo prendeva in giro spessissimo, non gli saltava neanche in mente di dover andarci piano, e usare prudenza per il suo fresco ruolo di figlio di genitori divorziati. Ci scherzava volentieri. Ad esempio, una volta Sue lo aveva rimproverato perché si succhiava sempre il pollice. Lui era lì col muso, e Faber gli aveva spiegato che i grandi non è che smettano davvero di succhiarsi il pollice. Imparano giusto a farlo quando nessun bambino li guarda, e con gli anni diventano bravissimi. “Ecco, guarda – anzi no, non ti girare mi raccomando - ascoltami attentamente. Quel signore dietro di te se lo sta succhiando per bene, si sente quasi il rumore che fa. È convinto che tu sia concentrato sul mio discorso e per un po' non ti girerai. Forse se ti giri di scatto fai in tempo a vederlo”. Mentre Faber finiva il suo discorso, la faccina sorpresa di Rex non ce la faceva più, e si girava. “Che ti dicevo? Bravissimi. E velocissimi.”
Tempo dopo, quando Faber tornò sul discorso lui gli disse serissimo “Ma la vogliamo fare finita con questa storia del succhiarsi il pollice di nascosto?”. E Faber se ne era innamorato. Era più difficile trovare giochi all'altezza. Lui, Rex, di Faber era innamorato già da un pezzo. Sembrava un'oasi, in mezzo a tanti Grandi interessati solo a farlo coprire bene e mangiare tutto ciò che aveva nel piatto.

Quindi Faber e Sue andavano forte. Fortissimo. Almeno a cento all'ora.
Ma sai quel che si dice a scuola sulla velocità. Difficile che cento chilometri all'ora possa essere una velocità costante. Più probabile una media, o una velocità istantanea. L'informazione che il tachimetro ti restituisce solo in un dato momento. Sue e Faber toccavano picchi anche superiori. Ma era impossibile partire a cento all'ora. Per farlo, sarebbe occorsa un'accelerazione infinita. E anche con l'aiuto delle gigantic tits di Sue, se ben ricordi Faber fin dall'inizio non aveva osato condividere i suoi giochi surreali. Non tutti, almeno. Era anche impossibile arrivare mantenendo la loro velocità di crociera inalterata. Cioè, in fin dei conti quello era possibile. Bastava trovare un muro sulla propria strada, e andarcisi a schiantare contro.

Quel muro lo trovarono d'estate. Rex era in campeggio cogli scout. Faber e Sue potevano concedersi le prime vacanze da soli.
I problemi cominciarono subito. Il posto scelto era troppo lontano, se fosse successo qualcosa. O troppo vicino per staccare veramente. Troppo costoso o troppo economico. Troppo freddo o troppo caldo. Troppo montuoso o troppo pianeggiante.
La logica di Faber rimise in funzione le vecchie rotelle. C'era qualcosa che non andava. All'ennesima discussione, interruppe gli strilli di Sue bloccandola contro il muro. “Ti stai comportando irrazionalmente, renditi conto. Nessun problema è il vero problema. Tu non vuoi concederti libertà. Non vuoi regalarti e regalarci spensieratezza. Che invece è l'unica cosa che serve. Falla finita coi sensi di colpa, falla finita col farci soffrire. Va tutto bene, per com'è andata. Ora il ragazzo sta imparando a divertirsi anche da solo, ed è ora che impariamo a farlo anche noi.”

Sue non ascoltava nessuna delle frasi di Faber. Era assediata. Da una parte il muro, alto e inespugnabile. Dall'altra le braccia nervose di Faber, e una logica claustrofobica e fredda. “Lasciami stare”. “Non sopporto di essere chiusa in trappola”. “Se non mi lasci andare immediatamente sono cazzi tuoi”.

Più di una volta, scherzando ma non troppo, Sue aveva sfidato Faber a combattere. Si sentiva forte, più di quanto fosse quando l'ex marito l'aveva abbandonata con un figlio a carico. Era forte anche grazie a Faber. Da quando aveva iniziato karate sentiva di poter picchiare chiunque. Di certo era più pesante di Faber. Ancora più sicuramente, lui era più forte di lei. Non erano quei quattro calci che aveva imparato a dare ai suoi conoscenti occhialuti a poterla aiutare, a quella breve distanza. Soprattutto se intrappolata tra muro e braccia. Ed era meno forte di lui, non solo fisicamente.

In un lampo fu chiaro che colla testa non ne sarebbe uscito. Vedeva negli occhi di Sue la paura dell'animale in trappola. Contemporaneamente, sentiva la rabbia crescergli in petto. Aveva aspettato tanto. Gli anni migliori erano passati. Ora che finalmente tutto poteva andare bene, si scontravano su ostacoli di un'inesistenza insormontabile.
Era investito dalla paura bollente di Sue, che le usciva a fiotti dalle labbra carnose. Sentiva fremergli contro le gigantic tits. Focolai di calore gli scesero dal cervello al basso ventre.

Negli stessi istanti, gli istinti di Sue avevano deciso che era troppo. Le avevano fatto alzare le braccia, fra un attimo le avrebbe abbassate per provare a picchiarlo come fanno i pupazzi a molla e i bambini. Cioè dall'alto verso il basso, scoprendosi la guardia ed esponendosi a un peggio che fra bambini e pupazzi a molla per fortuna avviene raramente. I suoi impulsi le avevano fatto dimenticare ogni tecnica.

Faber le afferrò i palmi con una mano. La bloccò, intrecciando le dita con le sue. Lei aveva le braccia forti, e l'avere ufficialmente aperto i combattimenti le conferiva forze nuove.
In un attimo, Faber le prese il culone con l'altra mano. Lo strinse a sé, salendo sulla vita. Gli occhi di Sue persero il terrore animale, in favore di un nuovo stupore.
Lui le avvicinò le labbra alla bocca. Se l'avesse fatto prima, i denti di Sue gliele avrebbero lacerate. Le premette contro le sue, infilandole dentro la lingua. Nel frattempo le dita della mano libera le scivolavano nelle mutandine. Poteva sentire la forza nelle braccia di Sue illanguidirsi, e sciogliersi verso il basso. Stringendola a sé, le infilò tutto l'indice nel buco del culo. Se ti stessi chiedendo se stavolta fece veramente una cosa del genere, la risposta è sì. Lo fece sul serio. Tutto il dannato indice su per quel bel culone.

Fu la più bella scopata della loro vita. Un combattimento così cruento che il letto rischiava di essere un tatami troppo fragile. Lottarono contro paure, mostri, passato e futuro. Esistevano solo loro, in un presente eterno. Animali selvaggi. Piangevano e ridevano, si sbranavano e si baciavano. Attimi dopo, Faber si sarebbe stupito di quanto per un momento era stato labile il loro equilibrio. Come ricordandosi di un orrido altissimo su cui era stato così incosciente da affacciarsi. Gli venivano i brividi al pensiero che potevano finire sui giornali locali in cronaca nera.
Riteneva ancora impossibile poterne uscire ragionandoci su. Aveva avuto una buona intuizione. Tutto qui. Ripensò alle volte che aveva affrontato le cose colla testa, invece della pancia. Gli sembrò di aver odorato cogli occhi, o ascoltato col naso. In quelle circostanze, aveva avuto sempre ragione lui. Tranne le volte in cui aveva torto. Ma farlo notare non era servito a niente. Mai, in nessun caso.
Sarebbe riuscito d'ora in avanti a osservarsi i problemi da altre angolazioni? Ad abbandonare la logica sequenziale? È possibile accogliere l'impulso innaturale di spostarsi il punto di vista dal centro degli occhi?

Mentre guidava andando in vacanza, Sue cantava le canzoni che passavano alla radio.
Il Problema era passato a uno stadio più avanzato. Decise, d'ora in poi, di fidarsi di più del suo istinto. 





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