giovedì 24 agosto 2023

Disfunzione erettile

 










La conquista della posizione eretta, oltre a essere un pezzo struggente del Banco, è una gran cosa.

Quella di Scienze diceva che l'abbiamo scelta fra tante (ginocchioni, quattrozampe, a testa in giù, prona, supina, qualsiasi cosa voglia dire) per vedere se arrivano cazzi da lontano.

E infatti, eccoli lì.

Si frappongono fra me e la pizza al taglio. Che non è un gusto, il taglio è insapore, nessuno lo sceglierebbe; semmai una mossa, un gesto da arte marziale, ce lo vedrei un Bruce Lee a somministrare pizze a taglio ai suoi interlocutori. Magari qualche anno fa.

Ho parcheggiato, schivato il posteggiatore abusivo che vi alligna, presso la rivendita intendo, cioè la Taglieria di pizza. Ecco il perché di un campo visivo lungo metri, e dei secondi per formulare strategie. Ad avvistarti i cazzi da vicino ci fai poco. Da lontano invece hai tempo, e distanza. Decine di metri, centinaia se la giornata è limpida, e interi secondi, se non minuti. I secondi volano, i metri sfumano; ma il pensiero è più veloce. Nulla è più veloce del pensiero.

Il posteggiatore l’ho schivato parcheggiando lontano; ma non lui. Staziona presso la Taglieria, non c’è modo di evitarlo. Impossibile scavare tunnel, o avvalersi dell’intuizione colombiana in barba ai terrapiattisti, specie per un pigro come me. Non mi guarda. Non guardano mai, fino all'ultimo, quando è troppo tardi per scappare. Sanno calcolare la distanza tra due punti, problema di geometria analitica che impegna da secoli gli studenti. E anche tu, che leggi distratto; ti ci voglio vedere alla lavagna, pur con l'aiuto di un piano cartesiano, ad applicare il teorema di Pitagora, famoso costruttore di quadrati su cateti e ipotenuse, incalzato da Quella di Matematica.

Invece, lui. Guarda da un’altra parte, ma le rotelle processano. Un punto è lui, l'altro sei tu. Raggiunta la distanza minima, vince in un momento l’inerzia delle sue borse, e mi punta addosso gli occhioni.

Dai quali, dune sabbiose m’ipnotizzano. Spazi infiniti, predatori che predano, prede che fuggono. L’estinzione del più lento. Terre riarse, mosche che hanno pance rigonfie per giacigli. LA FAME, mentre in altri emisferi raffinati e oziosi si disserta di gusti taglienti poco saporiti.

L'amigdala suona allarmi di adrenalina, e cerca in memoria informazioni utili. La conquista della posizione eretta ha svincolato gli arti superiori dal peso del corpo, e ha permesso di impugnare cose. La mano corre al cellulare.

Alle volte il trucco aiuta. Una poggia l'apparecchio sulla tempia, l'altra lo indica. Le sopracciglia si inarcano a indicare che la faccenda è ineluttabile, e il rammarico di non poter valutare la proposta d'acquisto, senz'altro interessante.

Ma briciole di segnale hanno raggiunto la corteccia cerebrale,  e vengono elaborate. La coscienza informa che gli sguardi si sono incrociati per un attimo. Il telefono è una scusa vigliacca occidentale. Non vorrò che gli occhioni mi guardino, mi soppesino, mi biasimino, mi ridicolizzino. Sciocco cervello, propaggine saccente, è proprio vero che allontani la felicità.

Che fare? Andare avanti? Addurre la vacuità dell’acquisto? Calzettoni di spugna in pieno agosto? Poi io uso solo calzini corti neri, di spugna d’inverno, invisibili d’estate. I fantasmini, da adolescente, li ho inventati io; tagliando calzini vecchi dentro le scarpe per non farli vedere, mostrando stile del vestire, prevenzione dei cattivi odori, scioltezza nel vivere. Quando i negozi hanno iniziato a venderne ho indugiato tra la fierezza di essere stato un precursore e il rammarico di non averli brevettati prima. Poi quei colori, bianco fino al ginocchio, e a fine polpaccio uno striscione rosso con striscette verdi parallele sopra e sotto. Bianco rosso e verde; forse pensa che siano i più appropriati nel buffo paese dove s'è ritrovato. Ma dall’amalgama risulta chiara l’incompatibilità cromatica con qualsiasi altro vestiario. Una volta ne ho comprati. Giacciono in fondo al secondo cassetto a sinistra, quello della biancheria. Mai messi, neanche a casa, i calzettoni lunghi mi frenano la circolazione nei polpaccioni. Un’altra ho proposto di accettare l’euro, ma tenersi la mala merce. L’ho fatto prudente, poiché i miei sensi di ragno prudevano per avvisarmi che potevo risultare antipatico. La fierezza di quegli occhi mi ha fulminato. Se n’è andato. A nulla è valso rincorrerlo. Anzi sì: a ciò che giace intonso nel secondo cassetto a sinistra.

Ragioni tutte ottime. Ma gli occhioni direbbero: non è merceologia, è Fame. Come puoi contrapporre le convenienze, le compatibilità, il Bel Vestire, al diritto di sfamare me e i miei figli, le mie mogli, le mie suocere innumerevoli e invadenti? Non vedi come staziono sotto il sole agostano, mentre tu per un pranzo spendi il mensile del mio paese? Come osi non prenderti i tuoi calzo di cazzini?

Un euro per dei calzini, poi, è pochissimo. Come fa? Che margine di guadagno, su quell’euro, per produttori, rivenditori e mafie che tengano lontani i concorrenti?

Povere mafie. Ne hanno anche loro di problemi.

Questo annus horribilis mi ha regalato una barba candida come il raziocinio di chi ha creato la Vita, nel senso semantico e micotico del termine; e con lei, saggezza nuova. E allora affermo che la posizione eretta è conquista temporanea. La migliore, e definitiva, è la distesa; ricoperti, se possibile, a evitare l’imbarazzo del decadimento, come certi gatti mummificati sugli asfalti. Sottoterra le posizioni erette sarebbero difficili da ricoprire.

Questo vado pensando, mentre riconquisto la posizione seduta e metto in moto verso il Cinese, presso il quale latitano postulanti e parcheggiatori, segno che le mafie locali hanno altre percentuali da spartirsi.

sabato 28 gennaio 2023

Quattro cantoni


 







“Pressò, ammazza che occhiali swag!”

“Oddio, mò me tocca vede' su Google che significa pe' capi' se te devo promuove oppure no! Eh? Eh?”

Gli “Eh” pronunciati con rotazione del capo a centottanta gradi, a reclamare consensi. Peccato che la 'regazzetta, pure carina!' autrice dell'osservazione fosse un'alunna delle medie. E che nelle versioni precedenti non vi fosse traccia di risposte pronte.

Aggiungici attorno il bar, e un giro di aperitivi offerto per alzare gli indici di ascolto nonostante il suo soprannome, Moncherì, ovvero braccino corto. Escluse le concessioni alcoliche a fini narrativi, la sua tirchieria è leggendaria. Contratta al centesimo con chiunque gli tagli la legna, gli porti i porcini, gli poti le piante o gli aggiusti la caldaia. In realtà l'ha ottenuto da piccolo quando correva al bar a rimpinzarsi degli omonimi cioccolatini alla ciliegia, ma senza pronunciare la sc. I primi liquori partivano da lì, dal bar delle vacanze per lui, quello a cui siamo condannati tutto l'anno noi, seduti ai tavolini a sperare in un tamponamento o nelle corna di un assente, o almeno in un ubriaco da sfottere. Nel frattempo chissà che prodezze ci perdiamo negli anni scolastici che lo vedono in città.

Intendiamoci: sentire le stesse cose ma sempre diverse, perfezionate e mitizzate, può essere snervante. Noi non ci lamentiamo. D'estate facciamo scorte di Moncherì, le centelliniamo per tutto l'inverno, e al disgelo pregustiamo i weekend in cui torna a farsi le sue scampagnate.

Perché Moncherì ha l'hobby del trekking. Investe in attrezzatura ogni centesimo del suo stipendio di insegnante di Lettere alle medie. Indossa più elettronica lui di – chi era andato sulla luna? Gagarin? o quell'altra italiana coi capelli pazzi dei meme su Facebook. Nonostante satellitari e gps si perde non solo nei suoi distillati da Carosello – perché beve solo roba antica, Cynar, Vecchia Romagna, Biancosarti, Moncherì è cintura nera di nostalgia; gli bastano quattro frasche, qualche tasso o un boschetto di querce e tocca andare a riprenderlo col buio a poche centinaia di metri dalla strada asfaltata. Noi amiamo le rondini, perché nonostante i proverbi le rondini portano qualcosa, e quel qualcosa è Moncherì.

Moncherì è tutto per gente come noi, non amiamo ammetterlo ma è così. Qui non succede mai niente. Certe volte esce in solitaria e documenta le sue avventure con l'autoscatto. Si porta appresso quattro maschere di gomma, fatte piuttosto bene. Ha una testa di cavallo, poi la mucca che indossa lui, una zebra e uno spaventapasseri. Cerca un masso bello grosso e fa spuntare le altre tre da dietro rivolte a lui, che invece guarda in camera. Oppure va con altri, chiunque è bene accetto ma massimo tre: ci sono solo quattro maschere, e le sue foto non ammettono varianti.

Anche a un primo ascolto degli occhiali-swag capisci che è successo. Una ragazzina avrà detto davvero quella cosa, e l'ha spiazzato. A casa avrà cercato swag su internet, ce l'avrà ancora nella cronologia, e si sarà scervellato a cercare una risposta, trovandone una buona dopo qualche rodaggio al bar. Che poi dovresti vederli, gli occhiali di Moncherì. Montatura dorata, grosse lenti fumé convesse che pochi azzarderebbero oltre a Elton John e Jeffrey Dahmer. A una dodicenne potranno sembrare un accessorio di personalità, Moncherì li aveva trovati in un cassetto del comodino nella mansarda dove dormiva uno zio un po' frufrù, l'ultima volta che era passato in paese. Erano ancora buoni, perché comprarne altri?

Che non sappia che la gente abbia memoria delle versioni precedenti fa venire i nervi. Moncherì è stonato, eccessivo. Rutta a tavola, scureggia in pubblico, scatarra in terra, nel terzo millennio dopo cristo. Vuole imitare noi rudi montanari e compiacerci; ma non si è accorto che avevamo già smesso prima di iniziare. E fissa i culi di donna! Per quelli rischia il torcicollo. Piega in basso gli angoli della bocca e inala aria dalle froge, guardando i presenti uno a uno. Bella invenzione i culi di donna, intendiamoci, ma Youporn è arrivato anche qui. E per l'enfasi che ci mette ti viene il dubbio che i culi di donna gli interessino davvero, non ha mai fatto tutte queste storie per i suoi cioccolatini liquorosi, se ne ingozzava e basta. Mentre è raro vedere ingozzarsi di culi di donna Moncherì. Non è che siamo palati fini, ma quando parla ti prendono i crampi allo stomaco. Non puoi guardarlo negli occhi, non ci riesce nessuno perché l'imbarazzo ti uccide, il che è disturbante: perché vergognarsi per qualcosa che fa lui? Eppure è così.

A incappargli nel campo visivo sei morto: devi bere – non sente ragioni – e fargli da spalla, e condividere con lui la riprovazione di chi ascolta. C'è da dire che è uno dei pochi in paese che non abbia mai preso botte, neanche da piccolo. E sì che si piazzava per ore davanti ai videogiochi con decine di pezzi da cento lire, quando per penzolare dal Castello tenuto per i piedi bastava meno. Ogni tanto si concedeva un gelato, e le console tornavano libere. Ma noi avevamo esaurito da tempo i nostri spicci, e adesso sbavavamo per i suoi Fiordifragola e Lemonissimi quanto per Pac-Land o Track & Field. Uno così uno scappellotto te lo leva, però quando giocavi ti dava i trucchi con cui andare avanti. Dovevi perdonarlo.

Ma farsi bello con una delle medie! Con una storia pure inventata. Da luglio ogni suo vago conoscente l'aveva sentita appena arrivato in paese, condannando i presenti alla stessa sorte. Era troppo, ci fece saltare i nervi.

Moncherì ogni estate si presenta in paese con un chiodo fisso. Un anno voleva arrampicarsi sulla diga e percorrerla tutta. Un altro, pernottare nel rifugio dismesso da anni. Mai da solo chiaramente, quindi insisteva e insisteva finché non trovava seguaci. Quest'anno voleva entrare di notte nella casa cantoniera sulla statale che spacca la faggeta. Non ci vive nessuno, ne era attratto da sempre e in effetti è inquietante, ad arginare il bosco a bordo strada. Finora lo tratteneva il timore dei codici, prima quelli dei Grandi, poi i civili e i penali. Ora si era deciso. “Bisogna aspettare un sabato sera, quando i Carabinieri si mettono coll'etilometro sulla statale, così non ci beccano!” “Ci dobbiamo vestire di scuro, che se passa una macchina non ci vede.” “Massimo quattro però! Nel caso ci ritorniamo due sabati dopo, facciamo i turni, ah ah.”

Perché due sabati non lo saprà mai nessuno, perché nessuno sarebbe tanto pazzo da chiederglielo rischiando una risposta stupita e saccente che ti addormenta a un terzo e ti lascia comunque senza spiegazioni.

Certo andarci da solo non è cosa. Anche noi, nati e cresciuti qui, non ci entreremmo volentieri. È abbandonata da che ricordiamo, ma integra fuori; chissà che c'è dentro. Qualcuno, percorrendo la statale col buio, sostiene di aver scorto filtrare luci dalle persiane. Fuori c'è una 128 bianca mezza arrugginita con un forcone infilzato sul tetto. Da piccoli, ragazzini più vecchi di noi raccontavano che il figlio del cantoniere, con qualche rotella fuori posto, aveva inseguito la sorella che vi si era chiusa dentro facendolo impazzire.

Oppure quei ragazzini facevano a noi quello che noi volevamo fare a Moncherì.

Un bello scherzo.


~~~


Ecco quindi farsi avanti un Cavallo, una Zebra e uno Spaventapasseri. La Mucca già c'era, ed era Moncherì. Quella è la sua, e in questa matta partita a scacchi rien ne va plus, come diciamo al bar quando a ramino siamo già in quattro. “Questo sabato è perfetto, domani parto perché ho delle riunioni a scuola ma torno venerdì! Però non prima delle undici, undici e trenta, perché prima può ancora...” passare una macchina, un vigile, una pattuglia anti-swag, lo sappiamo, vada per le undici. E il dettaglio del venerdì ci spinge a far meglio.

Moncherì in paese sta a casa da solo. La sua dà sul fiume, abbarbicata sulla cresta appena sotto il Castello, e da ragazzini si vantava di un passaggio tra le rocce attraverso il quale poteva arrampicarsi fino al terrazzo. “Così se ci scordiamo le chiavi entro io, la finestra so aprirla anche da fuori”, senza badare al rischio che da grande qualcuno di noi potesse abbracciare il crimine in barba alle pattuglie anti-swag.

Arriva il giovedì e porta pioggia. E con lei una doppia effrazione a casa Moncherì.

Zebra e Cavallo fanno la prima cordata. Arrivano in terrazzo e davanti all'infisso restano perplessi: è vecchio, ma una serratura c'è. Come può aprirla da fuori Moncherì? Forse ce n'era uno ancora più vecchio e l'ha cambiato. Ma non ce lo vedono a mettere mano al portafogli. Allora perlustrano, e a bordo tetto trovano fissata sotto una tegola la chiave. Il bottino è cospicuo:


  • le quattro maschere;

  • la scoperta che in camera (senz'altro la sua visti i poster dei Gemelli del gol, uno dei suoi vezzi più oscuri è tifare Sampdoria) Moncherì abbia la collezione completa di Tiramolla;

  • la sua peculiare giacca da trekking, nera con cappuccio pellicciato rosso.

Quanto a Spaventapasseri, dopo il lavoro va a comprarsi un paio di North Face Hedgehog Fastpack II black, 156 euro. “Tanto mi servivano” dichiara ai cronisti.


Siamo partiti. Dobbiamo procedere?

Scorriamo le vecchie risposte alla ragazzina.


“Ma che vòr di'?”

“Oh, ma che so' ste parole?”

“Swag ce sarai tu e tutto il condominio tuo!”


E altro repertorio. “Che vi prendete? Una bella pasta al sugo di minchia?

Che a pensarci lontano dai pasti fa anche ridere, ma mai prima di ordinare, o a stomaco pieno. Soprattutto non ad alta voce, non guardandosi intorno sfacciato, non OGNI volta che si va al ristorante.


Sì. Procedere è giusto. Prendiamo la 4x4 di Zebra e partiamo. E siccome 4x4 è un motto da moschettieri, noi ci portiamo appresso un quarto. Ha la stessa corporatura di Mucca, e lo chiameremo Bove.


~~~


Non eravamo mai entrati nella casa cantoniera perché ci dormivano i pastori, e i loro cani ci facevano passare la voglia di avvicinarci in bicicletta anche di giorno. Per farlo aspettiamo il buio, Moncherì ha ragione, anche perché c'è c'è Zebra che va per i cinquanta, Cavallo e Bove ci sono già stati, e non scherza neanche Spaventapasseri: pensa se ci vedono a scavalcare. Partiamo sul tardi, a fine luglio il buio tocca aspettarlo un po'.

E cosa c'è nella casa cantoniera? Lo scopriremo con lui, non vogliamo rovinargli la sorpresa, anzi. Noi cerchiamo solo un punto per ciò che dobbiamo fare. Lo troviamo in un camino. La notte dopo dovremo tornarci. Poi ci riandremo con Moncherì.

Ancora più tardi la seconda cordata. Stavolta nessuno vuole arrampicare su casa Moncherì. Siamo stanchi, c'è mezza luna e il rischio di esser visti è alto. I villeggianti girano fino a mattina, e se era brutto essere visti nella casa cantoniera pensa di notte, appesi alle rocce a introdursi in casa d'altri. Bove saluta subito dietro promessa di essere dettagliato domenica, e pure Spaventapasseri. Zebra e Cavallo sanno la strada e possono rimettere chiave, maschere e giacca nel posto giusto, inutile che vada anche lui. A indennizzare i due alpini la promessa di una cena, bevande escluse.

Si entra in scena dopodomani, dopo un'ultima puntata alla Cantoniera senza Moncherì.


~~~


Eccoci al sabato sera. Moncherì ha la testa liscissima, si è rasato di fresco. Sarà per l'azione? Anche noi sfoggiamo pettinature in tema più o meno illuse, più o meno rassegnate,: è un calvario. Ma nessuno si lamenta, le maschere stringono meno. Ci sarà un motivo se l'Evoluzione prescrive così.

Zebra e Cavallo discutono, entrambi vogliono indossare il cavallo. Ma è per finta, giusto per sembrare plausibili. Vince Cavallo in due mosse. Prova la maschera già sotto casa di Moncherì, mentre lui è dentro a sistemare l'attrezzatura (ma quale, per una gita di mezz'ora?). La criniera lo rende euforico, e subito s'imbizzarrisce. Prende a caricare, scalcia, punta oltre a noi quattro anche gli altri presenti, che sanno dell'escursione. Passa anche Fiorenzo lo scopino sulla sua Panda, ha una decina di anni in più ed è uno che ha sempre fatto il bullo. Conserva lo spirito dei giorni passati e accosta la macchina alla scena, pronto a deriderci. La vista di Cavallo che carica vestito di tutto punto gli mozza il sorriso: riparte sgommando. Noi ridiamo ma Cavallo fa impressione davvero, è inquietante, sembra quel cartone strano che andava tempo fa, parecchio più selvaggio. Esce finalmente Moncherì, e scopriamo in che consista l'attrezzatura: quattro torce di cui una frontale, chiaramente la sua. Siamo perplessi, bastavano i cellulari. Ma Moncherì ci persuade con una Genziana illegale e autoprodotta (è una radice protetta). Usa l'alcol come i selvaggi le conchiglie, Moncherì. Scegliamo il vecchio fuoristrada di Zebra, che ormai conosce la via.

Sembriamo una vera spedizione.

Per strada nessuno, il buio è rotto solo dai nostri fanali. Moncherì è infastidito dal lettore di cassette del gippone di Zebra, per l'occasione aveva preparato un cd anni '80 di Ricchi e Poveri, Donatelle Rettori e Matia Bazar. Quando qualcosa non va secondo i suoi piani si stranisce, ma si distrae subito. “Vediamo se si vede qualche animale!”

Arriviamo senza incrociare anima viva, né animali né uomini. Ci parcheggiamo per cautela un centinaio di metri prima del bivio, nel sottobosco. Passasse la Forestale, una macchina vuota sul ciglio della strada potrebbe insospettirli.

Ci teletrasportiamo dalla nave madre, per terra un letto di foglie ad attutirci. Siamo in quattro come Star Trek I serie, “quella coi pigiamoni” puntualizza il saputello, dove Kirk, Spock e McCoy per esigenze di sceneggiatura si portano appresso un quarto giovanotto mai visto, che muore al primo contrattempo. “Chi mai sarà? Eh? Eh?” ride nervoso Moncherì, che ora si pente del numero esiguo degli esploratori. Camminare a torce spente (le luci potrebbero segnalarci) non è il massimo. “Allora già era morto all'autoradio senza ciddì” bofonchia Spaventapasseri in dialetto. Ma siamo nervosi pure noi. Un buio letto di foglie ci spegne i sensi.

È fantascienza anche il cielo. In questa parte di mondo così lontano dall'Europa ci sono milioni di stelle, e finalmente si vedono. “E certo: cielo stellato sopra, legge morale dentro” recita Moncherì citando qualche altra nerdata delle sue. Telefilm antico o cartone animato giapponese, questa ci innervosisce anche più del teletrasportato morituro: stelle ce ne sono, leggi morali no. Che abbia intuito qualcosa? Le scintille rischiano di appiccare fiamme alle nostre code di paglia. Però adesso è serio, sembra triste. Progettavamo rabbiosi, accaniti, ma adesso è lui qui, vittima non più colpevole, a preoccuparsi del buio, di fari eventuali e di animali selvaggi, quando certo non ne incontreremo di più selvaggi di noi. Guardalo come si gira a destra e a sinistra. Guarda al pericolo in tutte le direzioni, tranne le nostre. Ci si stringe il cuore. Si è messo per secondo, al sicuro da attacchi frontali e da insidie nelle retrovie, nel gruppo si sente protetto. E invece.

Non avremo esagerato? Quasi ci pentiamo; ma a confessare le rocce violate, le effrazioni, la profanazione delle maschere soprattutto (quella risulterebbe la violazione più grave) ci toglierebbe il saluto. Ormai è tardi, sospiriamo. Andiamo avanti e facciamo conversazione.


“Magari la luce dagli infissi era qualche romeno che ci si è stabilito.”

“Quello è il pericolo grosso, mica il soprannaturale.”

“Il sottonaturale” commenta Moncherì. Niente da fare, non rinuncia alle freddure. Peggio per lui.


Arriviamo alla Casa, ecco il bianco arrugginito della 128, infilzato dal forcone. C'è una costruzione più grande sul fondo, la ispezioniamo per prima. Una grossa entrata è ostruita da una lamiera. Puntiamo le torce e guardiamo dentro: è vuota. “La usano per tenere il sale quando gela” dice Cavallo, che lavora per il Comune. Basta tergiversare, torniamo alla cantoniera.

La porta d'ingresso è chiusa, ma le finestre a piano terra sono rotte. Il primo a entrare è Spaventapasseri. La torcia rivela un pavimento di calcinacci. “Attenti alla soglia che è spaccata, tenetevi a lato” suggerisce. In un attimo siamo dentro tutti.

Ora abbiamo il tempo di guardare meglio, senza altro scopo che la curiosità. Quanti graffiti ci eravamo persi. Qui c'è gente che si ama dagli anni '60. “Ah l'amore” sospira Moncherì, “chissà che fine avrà fatto da allora, quando ancora non si parlava di obsolescenze programmate.”

Ispezioniamo le stanze. C'è una cucina economica in muratura, una stanza che doveva essere un salotto, una camera grande e una piccola (rispettivamente stanza da letto e bagno, commentiamo), tutte spoglie. Una porta sbarrata dà sul giardino, mentre una rampa di scale porta al piano di sopra. Eccoci al dunque, speriamo bene. Bene cioè? Non lo sappiamo neanche noi.

Saliamo. Moncherì per secondo, tra la prudenza e la voglia di protagonismo. “Qui dentro ci sono dei vestiti” dice Cavallo che è primo. Nella stanza in cui si è affacciato spiccano tre paia di scarpe e uno di stivaloni di gomma, veniva usato non da molto come spogliatoio. In un'altra stanzetta c'è una brandina. “Chi ha dormito qui stava al piano di sopra” osserva Spaventapasseri, “giù le finestre non chiudono e d'inverno fa freddo, stiamo più in alto del paese.” Non manca un preservativo a prendere polvere, nei piani alti non si sono fatti mancare i comfort. Chi il Penetrato? Donna? Uomo? Animale? “Il Penetrante non disdegnava i pro della filassi”, ci gela Moncherì.

Resta una stanza da perlustrare, la più grande. Un camino angolare ci aspetta dal lato opposto alla porta. Sarà la prescelta per le foto di rito come immaginavamo, il piano di sotto è malmesso, e di certo non si sarebbero indossati travestimenti prima di terminare l'esplorazione.

Eccoci al dunque: la Vestizione, rito pagano che ha per paramenti le maschere degli animali. A officiare Moncherì, che le estrae dallo zaino e le consegna cerimonioso agli adepti, che le indossano subito. Ora Cavallo è davvero cavallo, Zebra zebra, Spaventapasseri spaventapasseri. L'ultimo a predisporsi è Moncherì, che si farà mucca per noi e per tutti in remissione dei peccati. Ma prima estrae il cellulare e trova un punto d'appoggio adeguato per l'autoscatto su una sedia, che dispone vicino alla porta.

Il camino reca vecchie foto, cartoline, impolverate e malridotte. Sappiamo che prima dello scatto non resisteremo a ispezionarle. Infatti Moncherì, testa di mucca in mano, si avvicina.

La prima è una vista laterale del paese, “Sicuramente l'hanno presa dalla pineta” dice Spaventapasseri. Non ha francobollo, né timbri né indirizzi, la polvere dei secoli è arrivata prima di imbucare. Poi c'è un santino di Sant'Antonio, il protettore del paese. “Ce l'aveva uguale mia nonna!” si commuove Zebra. “Sand'Andonio, sand'Andonio” introna Spaventapasseri, “lu nemico dellu dimonio” rispondono ad antifona Zebra e Cavallo. Spaventapasseri alla festa suona l'organetto, e la versione dei Gufi è uno dei brani più apprezzati. La terza è una foto della piazza. “Si vede pure la 127 di Papagiovanni” - al secolo Nicandro Micca, bestemmiatore da competizione - “ti ricordi?” chiede Zebra a Cavallo. “E come? Manco ero nato, quando è morto.” “Dico la 127, questa celeste, era parcheggiata sull'aia fino a due anni fa!” “Madonna, sembrava la piastrella di una piscina”. Nato come recita timorosa, il dialogo ci appassiona al punto di quasi dimenticare Moncherì.

Già, Moncherì. Ma che fa? Non sente da un pezzo, ha in mano una foto in bianco e nero. Era attaccata storta alla canna fumaria con una puntina. Bruciacchiata, mezza strappata, ma significativa. Ci avviciniamo. Cosa ritrae? Sembrano in posa, sono quattro anche loro e hanno teste di animali; tranne uno imparruccato di paglia cogli occhi cuciti. Portano gli stessi vestiti nostri, la mucca incappottata in una giacca scura dal cappuccio imbottito di pelo, il cavallo in felpa leggera come fosse in un microclima di dieci gradi in più. La testa di zebra dal colletto di una camicia a scacchi da boscaiolo, con le maniche rimboccate sotto il gilet di piumino Quelli sono – siamo noi. Immortalati da lustri già prima di metterci in posa oggi.

Non che si veda il logo North Face ai piedi di Bove (che ha porta lo stesso numero di Spaventapasseri), o si distingua il rosso del cappuccio peloso di Moncherì; la foto è grigia e sfocata ma i jeans sono gli stessi, addirittura si distingue il pacchetto di sigarette che gonfia la spalla di Spaventapasseri. Moncherì-Mucca gira la foto. Dietro una scritta gotica (la fidanzata di Zebra è segretaria all'Alberghiero, tutti i diplomi li redige lei): I quattro cantoni.


Intendiamoci. Moncherì non respira da un pezzo, ma il sangue si è gelato a tutti. La scena è perfetta. Non gli attori, che si chiedono se devono dire qualcosa loro o aspettare che parli Moncherì. Che pare ghiacciato. Tutte le facce fissano lui, nella scena in carne e ossa e nello scatto antico, inchiodandolo alle responsabilità della profanazione di un luogo che è sacro, visti i miracoli che vi si compiono. Nessuno si muove, il tempo blocca le vittime di un congegno troppo perfetto da tollerare.

Qualcuno tenta un “Ma che significa?” Lo guardiamo brutto senza staccare un occhio da Moncherì. A cui il cuore riparte.


E certo.”


Non si è mai distolto dalla foto, anche quando l'abbiamo presa in cerca di particolari, o per leggere la scritta I quattro cantoni, per poi ridargliela. “Cosa?” chiediamo atterriti. Continua a fissarla, farfuglia un altro


E certo.”

Si lascia convincere dalle nostre pacche, adesso gentili, a lasciare la scena. Cavallo gli prende la testa di mucca dalle mani e si sfila la sua, imitato da tutti. Raccoglie le altre e le mette nello zaino di Moncherì. Spaventapasseri gli indica tra le mani la foto e sussurra “La rimettiamo?” Lui finalmente si distoglie dall'A5 stampato su carta fotografica dalla Epson di Zebra, e anticata dallo Zippo di Bove e dal carrarmato dei nostri scarponi su un sacco aperto di cemento. Si gira a guardarlo senza capire, gli riconsegna la foto dopo secoli. Spaventapasseri la raccoglie ossequioso e la posa sulla trave del camino, con l'aria di chi l'indomani accorrerà a distruggerla prima del caffelatte.

Moncherì scende un gradino dopo l'altro sottobraccio a Zebra e Cavallo, due dei suoi ladroni. Lo riportiamo a casa senza una parola. Alle porte del paese lui ne ripete due.


E certo.”


Per mesi ce ne chiediamo il significato. Le ipotesi:


  • 'Questo succede al mortale che mescoli uomo e animale senza essere un dio'

  • 'Non poteva durare oltre'

  • 'Troppe volte ho sfidato la sorte'

  • 'Questi non sono davvero miei amici'

  • 'Non dovevo parlare mai del passaggio sulle rocce'.


Poi, verso novembre, decidiamo che non voleva dire nulla di razionale.


Il giorno dopo, di buon mattino, la foto già non esiste, insieme a ogni traccia di Moncherì. Né della sua Panda rossa a metano. Scompare a fine luglio, quando in genere non se ne va prima di settembre.

Chissà se torna, l'anno prossimo. Per i weekend, o almeno d'estate. Se farà finta di niente, e avrà altre storie da raccontare, o se lo spavento l'avrà reso sobrio. O se sulle rocce profanate del Castello comparirà il cartello Vendesi.


Non lo sappiamo. Ce lo dirà l'inverno più lungo di sempre, quello in cui non sapremo se rivedremo mai più Moncherì.



venerdì 21 ottobre 2022

La mediocrità della politica attuale è incontestabile.

Il Partito democratico, ad esempio. Rifondare dalla base? Svecchiare, svoltare a sinistra, volgere prudentemente al centro? Scelte difficili. Soprattutto impegnative.

Un bel cambio di nome: "i Sei Stelle". Solo uno sciocco continuerebbe a votarne cinque.

E i Cinque stelle allora? Diamine: Cinquanta, Cinquecento, Cinquemila. "Le stelle sono tante, milioni di milioni", lo cantavano cinquant'anni fa.

Con "Infinite Stelle" si chiude la partita. Il primo che lo deposita può sistemarsi per sempre.

Si ignorano le sfumature. Cosa aspettano Calenda e Renzi a fondare un Centro-Centrodestra? Nello scacchiere si libererebbe la casella del Centro-Centrosinistra, ma soprattutto una logica differenziale, un Centro-Centro-Centro-Centroqualcosa, un Centro elevato alla n, con n che tende a infinito.

E cosa aspettano i democristiani nostalgici a rifondare un Centro-Centro?

Non c'è coraggio. Perché indugiare? Sotto con "Forza Universo" "Lega SalvOni", "Gemelli eterozigoti d'Italia" (gli omozigoti si presterebbero a equivoci gender).

Infine, si sorvola sul primo partito d'Italia, oggi al 37%: l'Astensionismo, che da metà anni '70 non fa che aumentare. Leggere "Saggio sulla lucidità" di Saramago per dettagli.


venerdì 19 agosto 2022

Dialogo della natura e di un irlandese


Arrivano le elezioni e i politici hanno sempre più a cuore gli Italiani.

Dibattono sui loro bisogni, litigano addirittura. Non menzionano il proprio tornaconto, tengono agli Italiani più che a sé stessi.

Schiavo delle mie preoccupazioni, io agli Italiani non penso molto. Non mi vengono proprio in mente, ammetto che non mi interessino granché; infatti ho meno probabilità di vittoria del politico più defilato.

Però mi chiedo: gli Italiani sono volubili, capricciosissimi. A far loro del bene se ne accorgerebbero?

Capisco che le ferite di guerra con gli Inglesi siano ancora fresche, e che per lo stesso motivo sia strano interessarsi al benessere dei Tedeschi. Per non parlare delle contese enogastronomiche coi Francesi, o della diatriba sulla scoperta delle Americhe con gli Spagnoli.

Ma gli Irlandesi? Una volta li ho visti: sono simpaticissimi. Inclini allo scherzo, alla risata, al ballo sui tavoli, a offrire una pinta pure a me che non bevo. Che gli Irlandesi stiano meglio mica mi spiacerebbe.

Potrei votarlo, un politico che includa nel suo programma gli Irlandesi. Farebbe un bel gesto visto che il voto da un Irlandese non lo otterrebbe.

lunedì 11 luglio 2022

Dis is the future

Se leggi queste righe, io sono morto. Quanti scritti banali iniziano così?

Eppure niente come la morte è banale quando d'altri e straordinaria quando è la tua. Sono morto io, ma non da solo. Forse lo sei anche tu, e sto scrivendo invano. Forse sono tutti morti. O disvivi, come si amava dire.

La prima volta che lo sentii fu alle elementari, verso la fine, quando eravamo già bambini grandi. Venne un signore elegante, panciuto, con la barba. Tirò giù lo schermo, spense le luci e accese il proiettore.

Era una festa quando calava lo schermo, sipario magnanimo su geometrie, calcoli e sillabazioni alla lavagna. Il buio esentava dallo scrivere e dal leggere, forse avremmo addirittura visto un film. Proprio così! L'eccitazione era pari alla riconoscenza per quel signore. La storia si svolgeva in una classe simile alla nostra. I bambini portavano grembiuli uguali per maschi e femmine, e quando la maestra li chiamava si alzavano in piedi prima di rispondere.

Pareva un film antico. Uno dei bambini era chiamato a leggere, guardava il libro sul banco e sorrideva. La maestra lo esortava a iniziare, lui si girava verso la finestra. Lei lo richiamava, “Cosa aspetti? Su, comincia”, lui tornava sulla pagina, che inquadrata in primo piano parlava di un bambino che si prendeva cura del suo cane, lo accarezzava e gli metteva acqua nella ciotola. Lui farfugliava le prime parole, poi tornava a contemplare la finestra. Nessuno di noi sarebbe stato sfacciato così. La maestra strillava “Filippo! Cosa aspetti? Vuoi leggere o no?”. Lui allora prendeva il libro tra le mani e lo sbatteva a terra, e scappava via. Non si esce dalla classe senza permesso.

La proiezione si interruppe. Il signore con la barba ci sorrise e disse: “Ora guardate la stessa storia come l'ha vissuta Filippo.”

Filippo era chiamato dalla maestra. Le sorrideva, e poi si alzava. Guardava il libro, ma era strano. Le lettere erano spezzate, alcune rosse, altre sdoppiate addirittura. Non poggiavano tutte su una riga come dovevamo fare noi sul quaderno, impossibile che a non farlo fosse un libro. Come poteva leggerle Filippo? Qualcosa si capiva, ma decifrare una parola faceva perdere il senso. Sembrava uno scherzo, e Filippo si girava verso la finestra sorridendo, come a dire Io non ci casco. Ma la maestra si arrabbiava, anzi, come doveva dirsi, si addolorava; e allora capiva che era seria, e lui quelle cose doveva leggerle davvero. Quindi provava, sillaba dopo sillaba, senza capire niente; e allora non si addolorava ma si arrabbiava proprio, di quello scherzo davanti ai suoi compagni. Doveva giocarci a ricreazione, a mosca cieca, a nascondino, ma qualcuno già rideva; e allora scappava.

Ora a Filippo non si poteva dare torto. Il signore con la barba riaccese la luce, riavvolse lo schermo, e ci chiese cosa avevamo provato. Mentre gli altri bambini dicevano più o meno le cose che ho scritto, io mi trattenevo dal guardare Patrizio, mio compagno di banco nonché migliore amico. A pallone era più forte, ma non sapeva fare le divisioni a due cifre. “Filippo è dislessico” ci spiegava il signore, “perché non può leggere bene. Certi bambini sono disgrafici e non scrivono bene, altri sono discalculi”. Ecco cosa era Patrizio. E io chi ero? Discalcico?

Guardavo Patrizio quando ero sicuro che non mi vedesse, né lui né i compagni, né tantomeno la maestra o il signore con la barba, che sorrideva troppo per un video triste così. Patrizio ascoltava come se la cosa non lo riguardasse, ma negli anni a venire gli avrebbero perdonato le divisioni a due cifre e un mucchio di altra roba, previa esibizione di certificati che gli sarebbero valsi un voto di maturità classica non dissimile dal mio. Poteva avvalersi di più tempo, consultare libri e quaderni, mappe concettuali, usare calcolatrici programmabili, addirittura computer; ma tanto consegnava sempre in bianco. “Non in bianco; i numeri li scrivo, però mischiati, incasinati, sempre più pieni di cancellature e di fatica” mi spiegava sotto i tagli delle prime barbe con intuito combinatorio più acuto del mio. La prof lo perdonava per sistema e gli impartiva sufficienze pilatesche. Io invece Matematica l'ho avuta in quarto ginnasio e in seconda liceo, e poiché a tempo debito avevo sorvolato su equazioni di secondo grado e logaritmi, avevo dovuto sorbirmi ripetizioni tutta l'estate.

Patrizio era il più quotato della classe. Era forte a pallone, giocava nella squadra della scuola, le ragazze non gli mancavano e aveva una materia complicata in meno a rallentarlo. La sua disgrazia computazionale non gli stornava alcun successo. Alle elementari in effetti non ne azzeccava una, e così era rimasto. La ruggine accumulata negli anni lo aveva anche peggiorato. Ma, dopo il liceo, con la mia laurea umanistica io campavo facendo supplenze in attesa di una cattedra, disilluso, questo sì; mentre Patrizio nella ditta del padre sperimentava strategie finanziarie sempre più arrembanti. Mi aveva sempre stupito, Patrizio, per come i numeri che vedeva sdoppiati, spezzati, sfalsati, gli acquistassero senso se preceduti o seguiti dal simbolo dell'€uro. Forse con chiavi simili anche le serrature di trigonometrie e algebre gli si sarebbero dischiuse.

Ma chi sono io per dirlo? Un disinformato, un dissennato, un disfattista. I miei studi svogliati e inconsistenti certe cose non le hanno approfondite. Quindi mi limito a riportare fatti.

Dis. Sai chi era, in latino, Dis Pater? Dite, cioè Plutone, dio della ricchezza. E infatti, mai prefisso causò tanta plutocrazia. L'economia si mosse, pachidermica e inesorabile. Prosperarono scuole di recupero e insegnanti di sostegno. Periti e operatori dei disturbi dell'apprendimento autocertificavano nelle ASL il possesso dei requisiti richiesti, della formazione e delle competenze in percorsi diagnostici e riabilitativi acquisite sul campo. Domande di invalidità si inoltravano presso le commissioni territoriali. Se respinte si ricorreva ai tribunali competenti, o si richiedevano Accertamenti Tecnici Preventivi Obbligatori. Se l'invalidità ancora non era concessa (lottare per un'invalidità; ci pensi?) si avviavano cause di lavoro. La legge si arrese, e per bilanciare le difficoltà dell'allievo introdusse strumenti compensativi e misure dispensative, fra cui l'esonero da compiti troppo difficili. Agli esami di stato i candidati con certificato sostenevano prove differenziate, coerenti col percorso svolto, finalizzate solo al rilascio dell'attestazione. Nel diploma finale non veniva fatta menzione delle modalità di svolgimento e della differenziazione delle prove.

A ogni dirigente scolastico veniva raccomandato l'uso di misure atte a evitare la sofferenza del percorso scolastico. Ma esiste successo senza sofferenze?

La strada era spianata per chi, nonostante i disturbi alla ricezione, volesse sintonizzarsi su percorsi scolastici prolungati. Alle lauree di primo livello seguivano le specialistiche, fioccavano i dottorati di ricerca. Chi non disponeva di certificati era chiamato a prove standard: dimostrazioni chilometriche di teoremi, memorizzazioni enciclopediche, e senza premi di gettoni d'oro interrompeva presto gli studi. I titoli accademici finirono per certificare incompetenze proprio nella materia di riferimento.

Dis Pater: Dite, Plutone. Dio della ricchezza. Corrispettivo al greco Ade, re dell'Oltretomba.



Nessuno più sapeva fare niente. Si riunivano commissioni di esperti “qualificati” a sviscerare problemi. Qualcuno ne avrebbe fatto reality-show, se ciò non fosse stato politicamente scorretto.



Un auto passava col rosso.

L'agente, solerte, fischiava.

L'auto accostava, si apriva il finestrino.

“Buongiorno. Lei non ha visto il rosso?”

Forse l'ho visto ma sono esentato, soffro di discromatopsia.”

“Cioè?”

Non distinguo i colori.”

“Vuole dire Daltonico.”

No, voglio dire discromatoptico. Daltonico è dis-criminatorio.”

“Sia come sia, in questo caso deve esporre sul parabrezza l'apposito certificato.”

No, poiché in quanto dis-informato sono esentato anche dall'esposizione di certificati.”


O ancora, i governi. Dirette impietose esibivano le schermaglie di incompetenti patentati e le loro votazioni a scrutinio segreto e a partecipanti assenti, i loro monologhi accesi, le risse e i richiami all'ordine. Ma almeno a questo si era abituati.

Nei tribunali penali e civili potevano incriminarsi solo gli onesti, i disonesti erano legittimati a delinquere. Il potere giudiziario si accaniva sulle infrazioni stradali di miti padri di famiglia, sulle bollette inevase delle vecchiette, sugli schiamazzi notturni di chi russava in preda a riniti e sinusiti. Inutile chiedere clemenza a Vostro disOnore.

La rimozione di strumenti didattici dissuasivi dall'insuccesso, vecchi ma formativi, quali lo Scappellotto, la Sospensione della Paghetta Settimanale, il Coprifuoco alle Ventidue e Trenta nei fine settimana, portò al disastro. Certificare il disabile da abile, sostituire al credito il discredito, premiare sull'educazione la diseducazione, portare l'ordine al disordine, rendere disservizi i servizi, rese l'amore disamore. Promuovere l'uguaglianza generò disuguaglianza; mai cantonata fu tanto clamorosa. Inventare contrari e coniare prefissi neolinguistici non aumentava le capacità speculative, ma le riduceva. Non era umano, ma disumano.

I somari patentati – ora sì – non affrontavano difficoltà, e quando erano interessati a farlo se ne scoprivano incapaci. Se mi fossi allenato col pallone investendo ore a battimuro, di destro e di sinistro, qualche gol l'avrei fatto anche a Patrizio. Oppure avrei scoperto che la cosa non m'interessava, nozione impagabile per un pigro; e avrei investito più tempo in giornaletti.

In ogni classe c'era uno meno bravo in una specifica materia, che a suon di bocciature e sufficienze stiracchiate conseguiva i risultati minimi. O magari negli stessi campi più avanti si rivelava un'autorità, e sfotteva i suoi persecutori in linguacce iconiche.

Ora la gente si piazzava al centrattacco di squadre in testa alla classifica proprio in virtù di capacità realizzative scarse o nulle, e la vita – senza le sue difficoltà – divertiva come un flipper senza buche. La distopia dei leoni sdentati che inseguivano lentissime gazzelle chiamò a sé la morte. La mia, che ho scritto; e la tua, che mai mi leggerai.

domenica 25 aprile 2021

Laika











    Stavo buttato sul letto a decidere se fanno più schifo i cani o i tatuaggi, quando all'improvviso il telefono non suonò.

    Chi poteva non essere? Certo non un call-center. Quella è gente che chiama. Forse un genitore anziano, che per adesso stava bene. Una cosa di lavoro, che però andava liscia. O magari a non chiamare era lei.

    Quella telefonata era importante. Andava fatta. Una telefonata di scuse: Ti ho tradito, ogni volta che ho potuto. Invece tu non mi tradivi, si vedeva. Non mi tradivi, no?

    Io invece sì. Sempre. Anche quando non ti tradivo, pensavo in continuazione al modo di tradirti. Come, perché? Perché era bello. Perché sennò? Gli approcci, i corteggiamenti, i successi. La parte meccanica. Quella era la più noiosa.

    Ma il resto era gratificante. L'autostima cresceva. Mi sentivo importante. Ci faceva bene, sai? A me e a te. Quando tornavo ero più gentile. Scherzavo. Ti perdonavo le cose che non mi piacevano. Ti davo i bacetti. Eravamo contenti tutti e due.

    Ma tu volevi sapere, non ti fidavi. Mi scrutavi. Mi controllavi la posta, il telefono, le tasche, i vestiti. Le cronologie dei computer. Non trovavi mai niente, perché ero prudente.

    I cani? O i tatuaggi? I cani sporcano, sbavano, abbaiano, hanno bisogni, ne fanno addirittura. I tatuaggi sono più silenziosi, ma se li scansi mica se ne vanno. Almeno le cose infestate dai cani si possono pulire (bisogna farlo in continuazione). I tatuaggi no, io che non sopporto uno sbaffo di penna e corro a lavarmi, ci passo il sapone, e se l'inchiostro non va via mi sfrego la pelle con la pietra pomice.

    E più non trovavi più cercavi. Più cercavi più t'innervosivi. Innervosivi anche me. Che scemenza era? Non potevamo star bene così? Non era da te che tornavo ogni volta? Possibile che non ti va bene mai niente? E allora contestiamo tutto. Prendere un gelato, andare in vacanza, mangiare cinese il sabato sera. Porta via un sacco di tempo. Non chiacchieriamo mai al telefono. Certo non ora, che non mi chiami. Certe persone sembrano agende del telefono. Te le ricordi le agende del telefono? Non le agendine da tasca; quelle grandi sul mobile, vicino al grigio del telefono a disco. Cambi pagina e ricominci, quella dopo è pulita. La pelle no. Puoi solo riempirla di altri scarabocchi.

    Gli scarabocchi sono peggio dei cani. I cani sono fedeli. Ma perché, non ero fedele, io? Io ti chiedevo, mi interessavo. Non è il non chiedere il vero tradimento? Anche quando sbuffavi. Provavo a raccontarti, a raccontarmi. Perfino i cani s'intristiscono quando non li consideri. Mica come un gatto, che se ti sente addosso un altro odore si offende. Bisogna dirlo: i cani non lo fanno. Però i tatuaggi neanche.

    La fedeltà è relativa. Cosa vuol dire, esserti fedele? Non guardare, non pensare? Non fantasticare? Oppure farlo pensando a te, come facevo la prima volta che mi ha colto l'amore? Non mangiare più con altra gente, non vederci più un film, non farci più una chiacchierata. Non è intima, una chiacchierata? Chi ha deciso che un coito lo sia di più? E perché dobbiamo conformarci?

    Certo una tua infedeltà mi avrebbe fatto arrabbiare. E allora come potevo perpetrare? Come ci si può arrabbiare con qualcuno per qualcosa, e farla regolarmente proprio a lui? Proprio a lei? Proprio a te? Come si può coltivare il bispensiero con pollici tanto verdi?

    È semplice: senza badarci. Ti abitui presto: uccidi e pretendi di non essere ucciso. Rubi e se ti derubano t'indigni. Commetti adulterio e detesti di subirlo. La coerenza è un orpello per vecchi barbogi. Considerala una fatica inutile e il gioco è fatto. Non serve laser, per statuarsela via.

    Tatuaggi e cani, cani e tatuaggi. Quali dei due? Concentrarsi è impossibile, col telefono che non smette di non squillare. E se squillasse chi dovrebbe scusarsi? Lei? Io? Chi ha tradito, o chi è stato tradito? E, dei due, chi ha fatto cosa? Non me lo ricordo. Impossibile concentrarsi, coi cani che abbaiano e i tatuaggi irremovibili. Il moto della Terra mi schiaccia sul materasso, povera bestia ammaestrata per mesi e abbandonata dall'addestratore nello spazio. Ci capirà qualcosa in tutto quel freddo? In tutto quel nero? Avevi detto che tornavi.

    Ecco perché, tremante ma risoluto, comincio lentamente a non tagliarmi le vene.


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