lunedì 29 luglio 2013

(venti)Sei personaggi in cerca di Ammore.





















Nella mia vita interminabile ne ho viste, di cose normali.
Non ci credi? strano. Sei sempre incline a credere alle cose più pazze, poi ti stupisci di affermazioni lineari come questa. A differenza di me, che non credo mai in niente e dico sempre la verità. Tranne quando mi sbaglio, o decido di dirti una bugia.

Comunque, per non perdere tempo, meglio che io ti sottoponga subito un elenco ordinato di prove. Tu sai quanto io abbia il pallino degli elenchi ordinati e del controllo delle cose in generale. Ma non divagare.



Alpha vuole un compagno perché a breve sull'orologio biologico le suona l'allarme;

Bravo vuole una compagna perché sennò si mbarazza quando i colleghi parlano dei figli al distributore dei caffè;

Charlie la vuole perché rischia oramai di non far conoscere ai nonni i loro nipotini;

Delta lo vorrebbe per essere al centro delle totali attenzioni di qualcuno;


Echo perché ha paura di essere guardata dai parenti a natale come una zitella;

Foxtrot perché non ce la fa più a fare le cose senza condividerle;

Golf perché ha immani carenze di affetto;


Hotel perché a mangiare da solo al ristorante si vergogna;

India perché ha bisogno che qualcuno la ccompagni in macchina dove deve andare;

Juliet vedrebbe in un compagno una scorciatRoia per avere una posizione;


Kilo perché alla sua età non sa più con chi fare le vacanze;

Lima perché, dopo un disastroso rapporto col genitore dell'atro sesso, spera di avere una seconda opportunità;

Mike perché non saprebbe da chi farsi soccorrere da vecchio, in caso di rottura del femore nella vasca da bagno;

November perché deve poter chiedere a qualcuno quale vestito mettersi stasera;

Oscar perché spera di essere compreso fino in fondo da qualcuna;

Papa perché ciò è normale, semplicemente;

Quebec perché è troppo grande per dividere l'affitto con un altro maschietto;

Romeo vuole proprio lei per sentirsi un grande conquistador;


Sierra per vincere definitivamente la propria guerra con la suocera;

Tango perché non può più guardare da solo neanche una cosa ripetitiva come il tramonto, senza sentirsi male;

Uniform perché non sa lavare né stirare né pulire né cucinare;


Victor perché non ha mai sperimentato interessi propri;

Whiskey per sentirsi necessario a qualcuno;

X-ray per poter avere una condotta sessuale eticamente accettabile;

Yankee perché anacerta bisogna pur ritrovarsi in un rapporto stabile;

Zulu per provare l'emozione di essere sopportati da qualcuno.



Fai caso a come ciascun personaggio non brami mai il bene altrui, quanto piuttosto il proprio.

Eppure, per identificarsi i sentimenti in società, continua a usare l'idea platonica di Ammore. Vuoi per sintesi, vuoi per buona educazione. Questo Ammore poi dovrebbe essere una cosa disinteressata, tipo 'Preferirei perdere un braccio piuttosto che farti soffrire' ecc. Come so queste cose? Perché io sono parte di quell'alfabeto fonetico, o lo sono stato o lo sarò; e perché la parte restante è arrivata alle mie orecchie, ai miei sensi e alle mie sperienze.

 

D'altronde, anche il bravo Dinobuzzati lo disse, mentre in uno dei suoi ultimi libri aspettava la morte imminente. Dinobuzzati, sì, proprio lui. Quello che tu confondi sempre con il suo sosia Paolostoppa.
È bellissimo, Dinobuzzati. Non per un libro in particolare, non me ne ricordo nessuno particolarmente bello. Però vale la pena di essere letto tutto quanto, se in mezzo ci trovi una favoletta semplice e breve come questa:



La ragazza innamorata soffriva tanto, che perfino il demonio se ne impietosì. Andò da lei e le promise l'amato. A una sola condizione: che mai, mai , per tutta la vita, neppure con una semplice carezza, con un semplice pensiero, lei lo tradisse; pena, la morte sua, di lui e dei figli. Singhiozzando, fu costretta a rinunciare.



Uhm. Dovrei farci una canzone.
Ci andrebbe bene la cassa in quarti.

venerdì 12 luglio 2013

Puntualità.

Viviamo in tempi disordinati. Compriamo razzi difettosi, per difenderci da nemici pericolosi al punto di essere invisibili. Pubblichiamo sulle nostre sigarette elettroniche le aberranti foto di chip bruciati o di fusibili rotti, per dissuaderci dal suggerne surrogati poco tossici.

Ordine e disciplina” è spressione dagli echi sinistri, negli mmaginari comuni. Ma questo talvolta è un punto di vista riduttivo. Se io voglio imparare a giocare a scacchi, ho bisogno di apprendere un sistema di regole che mi permetta di esprimermi le strategie. Devo sapere al più presto che, se necessario, il cavallo scavalca gli altri pezzi, com'è opportuno per un animale come lui, e lo fa trotterellando a “elle”. Non potrò pretendere di arroccare una regina coi suoi pedoni, poiché prerogativa rigidamente monarchica. Le regole ha senso infrangerle una volta note, per tentare di produrre qualcosa di originale e purtuttavia valido.

La struttura, vincolandoti, ti dà gli spazi per esprimerti. Lungi dall'essere castrante, questo meccanismo è invece ricco di stimoli. Specie quando le tue strutture sei capace di creartele da te.

Ordine e disciplina” è poi mprescindibile quando, per esprimerti, decidi di avvalerti di codici condivisi.
Decifrare un codice, noto o ignoto, è un'impresa che non tenterei mai, se perfino quel rissoso, irascibile, carissimo Umbertoeco nei suoi saggi sterminati spesso non fa altro che sterminarmi l'entusiasmo con cui tento di approcciargli le semiotiche.
Più modestamente cercherò di riferirti quello che, più che lo studio, l'esperienza di osservazione più che di vita (tanto per cambiare) mi ha insegnato sull'interpunzione.

Se tu ti articoli i diti sulla tastiera alfanumerica, non puoi confondere i Duepunti col Punto&virgola, che è l'errore più noto. O il Trattino colla Barra. Se lo fai, improvvisi in una neolingua più orwelliana dell'originale, che invece di espanderti i confini e le possibilità, ti relega nel detto male, nel non espresso, nel poco chiaro. Impoverisci la mente tua e del tuo interlocutore, e alimenti l'inquinamento e il degrado mentale, intaccandomi l'ecosistema pezzo per pezzo; irrimediabilmente. Eccoti quindi un bugiardino, di cui leggere attentamente le avvertenze e le modalità d'uso, per guidarti a un uso più puntuale delle scelte interpuntuali. Partiamo dall'inizio.



Il Punto (“.”)

Non è una faccina. Non cominciare. Sai bene quanto m'innervosisci, quando tiri fuori chiavi dalle tue serrature cabalistiche. Le virgolette servivano a creare un'oasi semiotica in un flusso semantico precedente e sequenziale.

Il Punto è unico nella sua essenza geometricamente adimensionale. Anche una modica Virgola (v. prossimo paragrafo) ha estensioni lineari e superficiali (quando addirittura spaziali, nel suo spessore tipografico) non trascurabili.

Eppure, in qualsivoglia sintassi, è il Punto a detenere il massimo potere conclusivo. Esso chiude ogni discorso, lasciando a te la scelta se farlo in modo temporaneo o definitivo. Usa un mezzo potenzialmente devastante come il “Punto” sempre con la massima sapevolezza.



La Virgola (“,”)

La virgola serve a respirare. Il cantante e lo strumentista accorto la utilizzano come apice tra le note, per deciderne il fraseggio. Melodie pure azzeccate diventano soffocanti, se non inframezzate da virgole opportune. Se troppe, causeranno fenomeni di iperventilazione, e conseguenti svenimenti.



I Due punti (“:”)

A che pro, incastonarti due punti in verticale nei discorsi? per ejaculare una conclusione da un onanismo verbale precedente. Ciò che segue ai Due punti chiosa, riassume, conferma. Oppure nega, sorprende, stupisce. Ma sempre, ciò che lascia eruttare è l'effetto di quanto precedentemente costruito.
Non avvalertene, se stai per dire cose avulse dal contesto.



Il Punto&Virgola (“;”)

Fra i segni interpuntuali più simpatici. La perentorietà del Punto, stemperata dallo scivolo lessicale della Virgola. Quando ne fai uso, inchiodi su un acceleratore che, con la sua energia cinetica, rinculerà il lettore sulla conclusione successiva. Scegli di offrire nel discorso una pausa veloce alle macchinette del caffè, da cui non si può che uscirne rinfrescati, e mentalmente più attenti. Pronti per cogliere proficuamente il frutto del lavoro precedente.
Non a caso, nelle faccine degl'imbecilli, esso semioticamente vale l'ammicco di un “occhietto”.



Il Punto interrogativo (“?”)

Non dubitare mai del dubbio. Esso è foriero di ogni certezza futura.
Non rafforzarlo soprattutto, copiancollandolo in una ripetizione selvaggia. Non esistono domande, o richieste, vaste al punto da meritarla, poiché sono tutte tendenti all'infinito. Sortiresti piuttosto l'effetto contrario: la banalizzazione. Come quando leggi “Professionale” su un attrezzo che palesemente non lo è. Anzi: la dicitura “Professionale” ne decreterà di norma il contrario.
Molto bello il Punto interrogativo inverso (“¿”), di uso spagnolo. Anche in musica una tensione va preparata, anticipandola e lasciandola fuoriuscire in fade-in da una precedente consonanza.



Il Punto esclamativo (“!”)

In un discorso scritto non va mai usato. Denota quasi sempre arroganza, quando non addirittura insicurezza sui contenuti esposti. Un uso singolo è ammissibile solo per colorare di ronia la proposizione. Va invece benissimo nella narrazione, nel fumetto, o in ogni caso di sospensione dalla realtà, che infatti favorisce. Anche qui, copiaincollaggi selvaggi e rovesciamenti ispanici provocano le stesse, diversissime, sensazioni esposte nel paragrafo precedente.



I Puntini di sospensione (“...”)

Non ce n'è alcun bisogno. Mai.
Un loro utilizzo denota vigliaccheria dialettica. Come a dire, Potrei dire, ma per delicatezza o superiorità non dico. O anche: I miei contenuti sono traboccanti, te ne lascio solo intuire la portata poi basta perché sennò rimarresti devastato dal mio spessore. Non ti dico, però; e non dicendo non ti do modo di soppesarlo, questo mio spessore presunto e dunque presuntuoso. Il che immediatamente ne rende il fruitore figlio di Troia per niente archeologica.
Mai sospendere. Tenere aperto, se necessario; oppure chiudere. Buoni per ambientazioni esclusivamente favolistiche. Un loro utilizzo da te effettuato, assieme ai copiaincollaggi precedenti (interrogativi e sclamativi), è il trucco più veloce per svanirmi dalla considerazione.



Le Virgolette

Sintomo inequivocabile di definizione, citazione o discorso diretto. Disegnamone in aria il meno possibile, se non vogliamo restare catturati in un ruolo di scimmia imitatrice di chissà quale comico televisivo antesignano.
Scolastiche sono quelle Basse (“<< >>”), d'uso comune i doppi apici (“ “” ”), indicanti spesso un flusso di pensieri in contesti narrativi quelli singoli (“ ' ' ”).


Le Parentesi

Con la loro presenza, ti ricordano che al mondo vi sono infiniti livelli possibili. Che individuano una dinamica altrettanto infinita. Tu puoi prestare attenzione a quello da cui vieni e a cui tornerai, mentre loro ti hanno appena aperto una botola sotto i piè.
Permettono una funzione di supervisione del testo presso il lettore.
Possono essere tonde (“()”), quadre (“[]”) o graffe (“{}”), e acquisire vari gradi di priorità in contesti meramente matematici. In quelli narrativi, la presenza delle quadre indica rimozioni testuali, qualora racchiuda puntini di sospensione nel loro unico uso giustificabile.



Il Trattino (“-”)

Trae dal suo contesto aritmetico una valenza sottrattiva, richiamando a sé l'attenzione dal contesto precedente. Ha una funzione parentetica meno sospensiva delle Parentesi. Chiede esplicitamente la tua attenzione, senza distoglierti pienamente. In quanto tale, è un ammicco appena meno appagante del Punto&Virgola. Alle volte ti permette, se lo vuoi, di sillabare.


La Barra (“/”)

Anche qui, come nel Trattino, importiamo un significante aritmetico per rendere l'idea di divisione tra termini o concetti. Equivale per l'appunto alla congiunzione “o”, “oppure”. Costituisce disgiunzione inclusiva (in latino vel, XOR in algebra booleana), a differenza del trattino (aut e OR negli stessi contesti) che disgiunge più esclusivo, più radical, più chic.



Quindi non dire che non ti ho avvertito. Apprezzami il lavoro fatto, che per quanto modico è notevole quando ne sia autore un pigro. Ora, se a me ti vuoi rivolgere, accetta almeno l'uso che dei segni d'interpunzione io ti propongo. Non farmi respirare convulso, con il tuo virgolare forsennato o assente. Non pretendermi reazioni emotive, coi tuoi perentori esclamativi o interrogativi insulsi.

Oppure ammetti che io, sui tuoi modi e la tua indole, mi faccia delle idee conseguenti e mie.

martedì 18 giugno 2013

Mal di ali.





















1. Parole



I motivi per cui sono qui, com'è vidente, sono vasti e ancor più vari; ma soprattutto, poco meno che noiosi.

Traumi infantili? No, non mi sembra. O almeno, non che io ricordi. Le cose solite.

Un rapporto conflittuale con la madre, che poi tendo a ricrearmi nella coppia, per tentare di dargli alfine un lieto fine. Mi scordo puntualmente che è impossibile, da dentro un rapporto che si vuole paritario. Mi sconvolge di esserne, da un punto razionale, consapevole. Se all'orizzonte c'è il miraggio dello scambio affettivo, ci casco dentro come il peggiore degli assetati stronzi.
 
L'incapacità di privilegiare la realizzazione di me, piuttosto che delle mie pigrizie.
 
L'averla in qualche modo sempre fatta franca.

Ma queste non sono che facce di un poliedro più complesso.

Il poliedro che mi disarciona puntualmente nasce dall'obbligo che ho assolto, evidentemente male, di farmi da figlio a gente. Da cardine di attenzioni a comparsa periferica. Io sono figlio, e lo rimango. Non solo per coerenza genetica. Ma perché acquisto informazioni dai miei sensi. Che sono solo miei. Perché le elaboro con un cervello tutto mio. Ciò mi rende  velleitario agli occhi di altri. Quando invece, se ho fatto un buon lavoro, mi sembra di esser fiero della mia oggettività. Sono figlio perché me ne resta l'indole infantile. È sano? è malato? Non lo so. Di certo, di me infante, conservo inalterati slanci generosi e indifferenze crudeli. Si cambia, con l'età? lo si fa davvero? secondo me, no. Certo m'impressiono, quando guardo le puntate dei cartoni che vedevo da bambino. Le stesse sensazioni, affardellate dall'inumana o troppo umana quantità di tempo che è passato, di nesperienze fatte. E che mi ha solo suggerito modi e trucchi per urbanizzarmi, regolarmi per essere sociale. Ma, dietro questi, rimango me.

Trovo la gente orribile. La guardo mentre aspetta i miei autobus, mentre compra o solo guarda quasi le stesse merci che guardo o compro io, quando si scopre col caldo e si protegge dal freddo, sembrando copiare i miei costumi. La maggior parte è brutta. Fronti basse, teste piatte, spalle scoscese. Varici sul viso, niente stile nel vestire, attenzioni decadute nella buca di potenziale del proprio cellulare.

Avviene ben di rado che la gente m'interessi. Per proporzioni armoniche. Per l'involucro che tradisce i contenuti – e, no, non sono lombrosiano. Per interessi a loro volta interessanti.
Allora con quelle genti interessanti nascono difficoltà, da fronteggiare. La mia invadenza possibile, e il  rischio di farsela scappare. E in mezzo il bilico, che dà vertigini. Divergenze e incomprensioni. Pazienti “inculate date e prese”. L'urgenza di alcune convergenze, e l'impeto distruttore che ne deriva. Il timore di una fatica che poi risulti vana, per incapacità proprie o per abbagli nella stima; e quindi la rinuncia, spesso preventiva.

Me ne sono accorto qualche anno fa.
Come al solito volavo verso soli che avevo sempre percepito raggiungibili. Sintomi vaghi, ma non irrilevanti. Ho iniziato a coglierli. Fastidi locali, piccoli disagi, tensioni tenui eppure persistenti.
A differenza dell'indole, il corpo muta. I tessuti cambiano, per usura o invecchiamento. Si irrigidiscono, callificano, si sfibrano. La cera, che pure aveva tenuto fino a llora, non riesce più a tenerli coesi. Lo sappiamo bene noi, sempre presenti ai nostri allenamenti. Da giovani per recuperare da qualsiasi trauma basta una buona notte di sonno. O almeno questo sembra, perché invece corpo e cervello gareggiano per serbarne traccia, presentando il conto in un primo volo malato, in cui il segnale premonitore si farà, da allora, permanente.

La fatica di lavorare. Di lavarsi, radersi, nutrirsi. La noia intollerabile di funzionare e basta. Le somatizzazioni.

Ma non è niente. Io sto bene. Questo divano, piuttosto, su cui sono sdraiato. È di pelle, no? L'ex-occupante di questa pelle, lui si che ne ha, di rogne. Uno dovrebbe commuoversi, a pensarci. Io al confronto sono un privilegiato.

L'unica è imparare i nuovi ritmi. Riconoscere gli avvisi. Recuperare il giusto. Fare molto, ma molto, allungamento muscolare.

È per questo che sono qui. Lei può allungarmi i muscoli? È un muscolo, il cervello? Volontario, nel caso, o involontario, per quanto m'illuda di sapermene avvalere? che dice la sua Scienza?
E soprattutto: la cura psichica, i farmaci prescritti, l'accanimento terapeutico cui lei mi sottoporrà, sono mutuabili, Dottore?



2. Musica




venerdì 24 maggio 2013

Troppe canzoni.



















1. Parole



L'orecchio non ha palpebre. È completamente nudo. Nudo come un verme, diresti tu, sempre propenso alla metafora stantia.
Ma perché lo paragoni a un verme? Non avrà una forma bellissima, in effetti. L'occhio è di gran lunga più grazioso, o almeno certi occhi. Ma di certo, per quanto buffe siano quelle nervature sul padiglione auricolare, esso non merita una tale esposizione agli eventi sonori.

Quindi tu, e peggio ancora io, non possiamo difenderci in nessun modo da lavori stradali, camion della nettezza urbana che ci svegliano la mattina presto o non ci fanno dormire la sera. Arrotini e coltellai. Traffico stradale. Campane delle chiese.
A te l'incarico di decidere quali di questi siano davvero funzionali. Io, in cuor mio, ho già deciso.

Non ha iridi, l'orecchio, che con la loro contrazione dosino sul timpano la quantità di stimolo. Non può adeguarsi ai posti in cui tu e io lo portiamo a spasso.
Ad esempio, se io passo sotto le finestre di un adolescente costretto a prendere coscienza di sé dai suoi esercizi al pianoforte, piuttosto che dalla TV o da Internet come invece converrebbe, il padiglione mi convoglia quello strimpellare pallido e assorto nel canale uditivo, avido imbuto che non mi perde mai nemmeno una goccia. Da lì l'impulso acustico è trasdotto in segnali elettrosciocchi, con cui il nervo acustico mi pizzica le corde del cervello. Le quali vibrano sul ricordo mai sopito delle mie analoghe torture. Scale maggiori e minori, armoniche e melodiche, Richter & Mercalli. Dai pioli spesso dissestati. Metronomi e sordine. Con l'unico scopo di non farmi troppo rimproverare da insegnanti e genitori, mentre là fuori i miei compagni imparano la vita.

Ecco perché nuotare sott'acqua mi piace. Per ascoltare il silenzio assoluto. Sordo a ogni richiamo di quei nuovi lettori subacquei di audio digitale. Per riappropriarmi del silenzio. Per sentire finalmente l'effetto che fa. Riassaporare la mia possibilità di romperlo, eventualmente solo per una voglia tutta mia.

L'orecchio interno manca del tutto di fonorecettori diversificati che si adeguino alle varietà dell'ambiente in cui si propaga l'onda prima di colpire. Non come la retina oculare, coi suoi coni e bastoncelli che raccolgono
gli uni i colori nitidi diurni, i movimenti notturni gli altri, pur sfocati.

Come so queste cose, vuoi sapere? Perché quel giorno del liceo, come in tanti altri, saltai la lezione di biologia e feci sega. Quindi il pomeriggio andai da Alessandra a prendermi gli appunti, che il giorno dopo potevano benissimo interrogarmi. Lei per sommi capi me li riassunse. Poi si sdraiò stancamente sul suo letto, guardandomi. Io invece continuai a guardarle il quaderno coi coni e i bastoncelli, poiché ero un ciccione. Un ciccione miserabile. Ecco perché per tanti altri anni non persi la verginità. Primo, perché non sono distratto come te. Quindi difficile che mi perdo qualcosa. Anzi dovrei stare più attento, perché le rare volte che la perdo, spesso poi quella cosa la ritrovo. Secondo, perché il cervello mi rimugina come e più del ruminante più goloso. Ecco quindi perché coni e bastoncelli mi stanno marcati a fuoco nella corteccia. Perché hanno transennato un bivio fondamentale della mia vita. Inutile starti a dire le volte in cui, su quell'indotto potenziale di coni e bastoncelli, per anni e anni mi ci sia fatto seghe
più prosaiche.

In compenso, una delle tre materie che
anche quell'estate presi per settembre, era Biologia.

Sembrerebbe totalmente vulnerabile, l'orecchio. Solo un muscolino, a difenderlo. Lo stapedio. Da una certa intensità di suono in poi, la sua contrazione frena la corsa dei tre ossicini, che altrimenti  trasmetterebbero amplificata la vibrazione del timpano all'orecchio interno, limitando così la percezione sonora sovrabbondante.
Muscolo involontario, peraltro. Il più piccolo presente nel corpo umano, appena un millimetro. Con un tempo di attivazione di dieci millesimi di secondo. Sembrerà basso, al tuo livello di superficialità. Ma non ti salverà i timpani dalla lacerazione, se nei pressi ti esplode una bomba.

Consigli? tieni la bocca aperta. Probabilmente già lo fai, nel tuo quotidiano, dallo stupore delle migliaja di cose che non ti spieghi. Ma stavolta l'aria che ti entra dalla bocca forzerà l'apertura delle trombe di Eustachio, e ti entrerà nell'orecchio medio, equilibrando la pressione sulle facce interna e sterna del timpano.
Ma soprattutto, fatti più domande. Chiediti ad esempio perché la gente si esploda le bombe nei tuoi pressi.

E allora. Pare dunque che siamo in balìa di qualsiasi tipo di rumore. Peggio ancora: di suoni.
Mi si viene incontro, praticamente ogni giorno, offrendomi tutta una serie di canzoni che accompagnino i vari momenti delle mie giornate.

Se devo comprarmi dei jeans, ecco che da un tronco d'albero posto accanto a un manichino vestito da cowboy scaturisce del country-western. Non ho modo di liberarmi le risorse di sistema per meglio valutare l'opportunità dell'acquisto. Anzi,
la fonodiffusione proprio a questo mira.

Poi, coi miei jeans sbagliati, torno a casa in metro. Lungi dal precisarmi le ntità del ritardo dei convogli, gli altoparlanti autotunano voci necrofile di gangsta e sista, che coi miei pur caotici referenti culturali non hanno alcuna intersezione.

Quindi vado in palestra a llenarmi. Non bastano i sudori e le fatiche. Vi si aggiunge della dance commerciale ai cui 120 bpm adeguarmi il cuore, spietatamente spezzettato da casse in quarti ipercompresse. Seghettato acidamente dalla lisergia di crudi riff.

Uscito in qualche modo da queste delizie, devo sbrigarmi a fare la spesa. Mi viene incontro il supermercato, colla sua scelta musicale a corredo dello scatolame che mi trabocca dal carrello. È un tripudio sanremese, con punte di vera poesia Ligabovina o Giovinotta.


Comunque, persino io che colla musica ciò un rapporto di grosso amore - grosso odio, mi infurio, e a volte addirittura non approvo, che della musica si diano per scontate solo alcune funzioni. Spesso, le più surrettizie. Molto poche, rispetto al potenziale che ha.

Per esempio, tanto per citarne una. Nessuno parla mai della funzione orripilante della musica. La musica può essere un ottimo rripilante. Quando vinco la mia pigrizia e metto su pezzi come Surf's up dei Beach Boys, Ladies of the road dei King Crimson, Questione di cellule di Battisti-Mogol, ecco che l'effetto orripilante mi favorisce la rasatura pressoché totale a cui mi sottopongo, meglio di qualsiasi crema idratante o gel da barba.



Inoltre una canzone dovrebbe rivelare. Far cogliere. Suggerire.
Dovrebbe dare una tensione, un buono premio per uscire finalmente dalla propria comfort zone. Un'evasione dal proprio punto di vista.


Io devo essere richiesto, della mia utorizzazione. Anche se hai una buona idea, e ci credo poco, e ritieni di illustrarmela con delle buone intuizioni musicali, e ci spero ancora meno, non pretendere che io sia nel giusto mood. Non puoi darmi per scontato, quale testimone delle tue
amorose insensatezze. Specie se di mie ne ho già fin troppe. Non ti approfittare dei tuoi decibel, o di quelli di altri urlatori velleitari che mi emani negli mbienti. Perché io non posso evadere. Oppure non voglio. O non ritengo giusto farlo.

E invece no. Ti approfitti vigliacco delle mie vulnerabilità, e spietatamente mi canzoni.

Questo apparato è fiacco, lacunoso. Come e più di tanti altri che abbiamo in dotazione. Più fallato dell'equipaggiamento di un italiano in Russia nel '43.
Si sta come d'autunno, sui fisici le orecchie. Gettati allo sbaraglio su un pianeta inospitale.

Dal che si evince, a differenza di quanto sostieni nelle tue preghiere più accorate, la natura pigra, frettolosa, irresponsabile o quantomeno crudele del tuo demiurgo.



2. Musica





lunedì 2 luglio 2012

Eravamo

io, Giovanni Rana e Giosuè Carducci, a girare per la città.

Questo aumentava la mia confusione, io ho sempre scambiato Giosuè Carducci non con Giovanni Rana ma Pascoli. Eppure ci voleva poco a decidere di concentrarsi una volta per tutte e inventarsi una mnemotecnica per ricordare quale dei due fosse quello
incazzoso, e quale invece quello placido, gioviale e contemplativo delle Cavalline Stornellate.

In più, a confondermi definitivamente, c'era Giovanni Rana invece di Giovanni Pascoli. Ti avverto, non ho la più pallida idea di dove io stia per andare a parare. Per rompere l'imbarazzo, a un certo punto decido di dire una carineria a ciascuno dei due. Mi giro verso Giovanni Rana e gli fò: “A Giovà, ma lo sai che a pensacce bene ciai avuto proprio na bella idea, o chi pe' tte? A fà er testimonial de te stesso ce risparmi, e impiù,  bello pacioccone come sei, rassicuri la massaja. Prima pensavo Ma chi je lo fa fa, a Giovanni Rana, de mettese a imparà recitazione, dizione, cerone all'età sua; poi invece t'ò capito, e se tte devo dì la mia, hai fatto proprio bene.”

Poi, rivolto a Giosuè Carducci. Certo non gli posso dire Ti confondo sempre con quell'altro, così antiteticamente diverso da te. Io Giosuè Carducci in fondo lo temo perché mi sa che al liceo un artificio mnemotecnico me l'ero inventato. Carducci cià le spine tipo cardo, è'n fijodenamignotta che se non stai attento puncica. Pascoli è quello bovinamente
fregnone come vuole il cognome.
Ma era proprio così? non è che alla fine di questo ragionamento dovevo aggiungere Però è l'esatto contrario?

Quindi spengo quello sguardo gigione con cui apostrofavo il peggior terrore di ricotte & spinaci, e mi faccio serio. “Giosuè, la tua prossimità m'induce ricordi. Io alla Maturità portavo Storia e Italiano, più per esclusione che per passione vera. Infatti le alternative erano Greco e Geografia Astronomica. Il mio Greco, a  parte il V ginnasio in cui il rischio di ritrovarmelo a settembre m'aveva fatto prendere delle ripetizioni cazzutissime, se posso dire Cazzutissime di fronte a uno” (qualunque dei due fosse) “
che occupava 3 pag. del libro di Letteratura Italiana, dicevo il mio Greco nei 3 anni di liceo si è estinto ad opera di 1 professore che non insegnava mai niente. Dire la mia Geografia Astronomica m'incriminerebbe di appropriazione indebita anche oggi, quando se non fosse per una lettura sistematica di Asimov in corso d'opera, potrei benissimo scambiarla per Geologia Gastronomica o Geometria Ansiolitica.”

“Quindi che dovevo fare, Giosuè? Calcola che per ragionamenti simili tutti portavano Storia e Italiano. La prima materia non potevano cambiartela, ma la seconda sì. E non mi garantiva certo l'aver scelto Storia per seconda, ovvero quella un pelino meno gettonata. Però era pur vero che non avevo manco idea dei votacci fetidi con cui mi avevano portato nelle altre due e in tutte le materie scientifiche in genere, e infatti poi spiritosamente mi sono iscritto a Ingegneria, mentre in Storia e Italiano avevo due stranissimi 7. Quindi non ti preoccupà per me Giosuè, e continua a starmi a sentire.”

“Del tempo che mi riservavo per iniziare a studiare per l'orale, alla fine occupo un ε piccolo a piacere mio. Bisogna ottimizzare, e la pigrizia mi rende
spesso algoritmico. Dell'Italiano studierò le sole vite e critiche degli autori. Sul Paradiso ciò scritto a matita delle note piccolissime e nascostissime. Se mi chiedono le opere, io leggo e imbastisco, e se so vita & critiche qualcosa me la invento.”

“Storia è già più un problema. Ciò l'alibi che alla II guerra mondiale si sa, i programmi in Italia quasi non arrivano mai. Poi ho gli appunti dEr Sorcio, dettati da lui medesimo tutto l'anno; già solo il fatto di averli scritti io di mio pugno, fa scattare tutta una serie di memorie visive.
Il tema faccio quello di attualità che non mi ferma nessuno, e alla versione di Latino me la gioco, se è vero che mia madre mi ha fatto arrivare al ginnasio che già sapevo declinazioni e coniugazioni, e al liceo quasi lo parlavo, con tutto che quel trojone della C. in I è riuscita non si sa come a darmelo a settembre.

“Insomma Giosuè, parto flemmaticamente a studiare dal Congresso di Vienna (1815, ma tu ricorderai meglio di me), e arrivato a metà mi rendo conto che mancano 3 gg. al mio orale. La mia lettera, di cui il mio cognome è l'unico esponente, è stata estratta per prima.
Cosa fare? Ho un'idea. Prendo i libri delle medie di mia madre, studio lì. Così se ne va il I giorno & mezzo dei 3 residui, ma a me di quel secolo scarso su cui a ben vedere ero chiamato a deporre, mancavano ancora due terzi buoni.”

“Giosuè, Giosuè. Mi vergogno a dirlo, ma considerando che dovevo lasciarmi lo spaziotempo di almeno mezza giornata per un vanissimo ripassone finale, all'epoca presi la decisione di prepararmi il resto sui riassunti di fine capitolo. Di un libro di III media. Non fare quella faccia Giosuè” (ma quale? non mi giravo mai a guardarlo in faccia, e io non sono uno di quei tipi come il Riccioletto che quando ti raccontano una cosa cercano di assicurarsi la tua preziosissima attenzione dandoti quegli odiosi colpetti sui fianchi. Perché non lo guardavo? Penso che fosse perché temevo di incappare nel fiero suo cipiglio, qualora spinosamente Carduccio, e ancor più di scorgere lo sguardo acquoso del ruminante al Pascolo – niente di peggio di raccontare un aneddoto che tanto ci appassiona a un interlocutore insulso.)


“Arriva il giorno.
La mia versione ha preso 7, ciò che mi sorprende è il tema: 5. La traccia che dovevo sviluppare chiedeva tipo se fosse possibile che l'uomo potesse un giorno diventare una macchina, e se il mio svolgimento traboccante di retorica adolescenziale meritava il 5 che ebbe, i ministeriali che proposero e lasciarono passare un argomento così cretino avrebbero dovuto essere valutati in codice binario, a 1 bit. Può una lucciola divenire lanterna? Può un dito finire arcùlo? La retorica adolescenziale è ben più di quel che mai meriterai, coglione.
Scusami il turpiloquio Giosuè, ammazza me piasce 1 sacco chiamarti Giosuè, me sembra la tronca di Giosuèppe, arf arf, Gioesù-Giosuepp&Morìa, ma un po' più di rispetto non guasta, ehm.
Io lo so che la Maturità ai tempi tuoi era una cosa seria e che non potevi prendere la patente fino a 21 anni, anche se però a te al cinema ti facevano fumare. Però, per uno ammesso a maggioranza come me, ovvero con delle insufficienze in varie materie (per lo più scientifiche), le prove orali sarebbero state determinanti – anche se alla fine mi salvarono coi loro 36 i raccomandati da bocciare, avanzandomi all'austero risultato di Quaranta Sessantesimi.”

“Insomma mi siedo. Inizio dalla Prima Materia: Italiano.
Senza falsa modestia, gioco in casa. È una lingua che volente o nolente mastico da 18 anni, ho letto un sacco di riduzioni dei Classici di quelle con Paperino o Topolino e anche tanti libri ma quelli non valgono come preparazione perché letti per diletto. Più che altro sono fiero del mio algoritmo. Chiedimi pure quello che vuoi, baffone di mezza età che mi interroghi: con un po' di Vite e un pizzico di Critiche, io ti reggo botta fino alla fine.”

Parliamo delLa Pentecoste, di Alessandro Manzoni. Capito Giosuè? si era tradito! se non me ne avesse rivelato l'autore, forse non l'avrei neanche saputa trovare sull'antologia! Quello era senz'altro un bug del mio algoritmo, ma mi era andata bene e adesso è inutile star qui a piangere sul latte versatile, anche perché c'è ben altro.”

“Sì, allora, un attimo che la cerco. Nel frattempo mi dica pure cos'è la Pentecoste, nella tradizione cattolica.

“Ahah Giosuè, penso io, ma questo è uno scherzo! Questi non sanno che io per 16 anni sono stato lo zimbello virtuoso di una freca di suore e catechisti, e che nel mio zelo spaccato ho letto la Bibbia varie volte, e che ho salito la Scala Santa sui miei stessi ginocchi e che in certi anni a Maggio, il famoso Mese della madonna, come da precetto andavo a messa pure di venerdì. Ora io perdio a questo lo scherzerò ben bene.
Ma Giosuè, giunto a quel punto sopravviene in effetti una domanda."

"Cos'è la Pentecoste?"

"Cioè capisci Giosuè, cosa cazzoera Lapentecoste? Noto con paura crescente che al volo non mi viene, e ho paura di dedicare tutte le risorse al quesito poiché so per esperienza che quando cerco di ricordarmi una cosa che lì per lì non mi viene, più mi ci sforzo più mi sfugge.
Ma questa è diversa, Giosuè. Io non è che non mi ricordo cosasiaLapentecoste, nella merdizione cattolica; io proprio temo di non averlo mai saputo. E questo non è giusto, Giosuè! per 16 anni ho servito quel buffone come un allocco, e quello nel frattempo mi preparava questo bel tranello, quel figlio ossimorico di Mignotta Semprevergine.”

“In più, ho poche frazioni di secondo prima che la mia esitazione sia palese, e io malcominci la mia opera non vedendone più la sua metà manco col binocolo. Ho deciso: farò ricorso all'etimologia. Penta in greco non vuol dire cinque? Qualcosa c'entrerà. Chi cazzomai erano in cinque? la Banda dei 5 di Elisabetta Viviani? i 5 sensi? i 5 continenti? I 5 peccati capitali, le 5 virtù teologali, i 5 comandamenti, i 5 apostoli, i 5 evangelisti? E invece se penso a Lapentecoste mi vengono in mente solo delle polo coi coccodrillini sopra.”

“Nessuno, Giosuè. Nessuno nella catechesi era mai in cinque. Tutti si riunivano o in di più, oppure giravano in di meno.
Perciò, per me è giuocoforza arrendermi.”

Non lo so."

"Nello sguardo del Baffone si spegne la routine, mentre in lui si anima la Vera sorpresa.
Mi guarda, e quegli occhi stupiti sono l'ultima cosa che mi ricordo del mio mediocrissimo Orale della Maturità. E questo stato di ncoscienza non aiutò certo la mia performance.”

“Cioè hai capito Giosuè? io, così sempre cattolico, arf arf, fregato dalla Pentecoste? A Giosuè, ma alla fine tu lo sai checcazzo era la Pentecoste? Ma tu ce l'ahi mai avuto un baffone tutto tuo che a un certo punto ti ha detto È la calata dello Spirito Santo sugli Apostoli, dopo la Krocifissione del Kristo? Scommetto che tu lo sapevi, Giosuè! L'hai sempre saputo tu eh, li mortacci tui?”, e nel dirlo gli assesto un'amichevole pacca sulla spalla, a dire il vero neanche troppo piano.

Non saprò mai, da un sorriso benevolo o uno sguardo corrucciato, quale dei due ei fosse.
Fatto sta che, o Giosuè Carducci o Giovanni Pascoli fece una cosa che mi stupì tantissimo.
Senza guardarmi, sputò in terra. Girandosi un poco verso di me, vicinissimo alla mia scarpa. Senza naturalmente che io potessi scorgerne l'ebete spressione o il fiero sguardo.

È inutile che vado a chic-boxing se poi non so soppesare la violenza. Come leggere l'accadimento? È un segno di fastidio per l'imposizione di un racconto noioso? ma chi t'ha imposto niente, coglione? O una maleducata provocazione nei miei confronti, a cui dovrei reagire?
O magari un gesto perfettamente normale, per un cittadino dei tempi in cui a ogni angolo fiorivano le sputacchiere. Ma a me lo sputo, tranne che di ragazza piacente e specie se di vecchio, mi fa schifo. E questo qui, chiunque sia, vecchio è vecchio, se me lo mettono sull'Antologia. “A Giova' (il Rana), ma hai visto sto stronzo ch'affatto? me stava a scatarrà sulla scarpa, me stava! Io je spacco er culo, nun me frega niente che ai tempi suoi la scuola era n'artra cosa, e che lui alla Maturità portava tutte le materie, e lui qua e lui là: a stronzo! Le odi barbare, Le odi barbare? io nun ne odo manco mezza, cérchetele da te a ste Barbare! Je spacco er culo, a lui e a te, st'altro cazzo de tortellone rancido, ma checciài da guardà eh, checciài? E invece st'artro, m'avesse mai guardato negli occhi na volta, sto mezzo uomo, te senti forte a campeggià sui libbri cogli amici tua, eh? vojo vedé che fai, qua in mezzo alla strada, senza
bidelli e professori che sse mettono in mezzo. Perché sapete tutto voi, non è vero? sai tutto tu, eh? La Pentecoste. Na cosa che non solo nun serve a'n cazzo, ma quello ce scrive pure la poesia, ce scrive. E poi che fai? Sali in piedi sulla sedia, e a natale ja'a dici a ttu madre pe ddù mandarini? vojo vedé che ce fai co dù mandarini, quando io co na Primacomunione scrausa ce svortavo armeno un Daitarntré di ferro e plastica. La Primacomunione! La Cresima! queste sò feste, no tte. Altro che le Pentecosti tua! Perché strigni strigni, haivoja a pontificà, a spoetazzà; ma la vera Maturità dell'individuo non si misura colla capacità di ripetere le cose altrui volute. Perché è così che si predispongono generazioni di somari veri, di quelli che tirano la soma senza mai protestare. È questo che vogliono da noi, che impariamo i loro catechismi, e allora e solo allora saremo noi maturi, e potremo guidare le loro macchine, e comprare le loro benzine, e mangiare i loro mandarini, ed è così che alfine l'Uomo si fa Macchina e poi ai temi di attualità piglia Cinque non azzeccando la risposta esatta, e insomma Giosuè, ecco che ti volevo dire – a maggior ragione se alla fine eri Giovanni Pascoli, è o non è buona quest'erba."
 
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