1
Le scie che spaccano i cieli non sono le sole a essere chimiche. Quella dai finestrini della Smart sul Raccordo Anulare, per esempio. Tre secondi di pop, due di comizio, liturgie della parola, “Caldo anomalo per questi ultimi giorni di settembre”, “Merluzzini di bastone! Buon legno, tutta scorza, niente schegge”, litanie di tifosi in romanesco. Neanche nei film americani guidano così.
Da cosa scappa la Smart? Quale appuntamento è tanto urgente? Fosse semplice fretta non cambierebbe stazioni, ma corsie. Chi ingrana i cambi radio al volante?
Una ragazza. Capelli corti, Rayban a specchio. Dallo zaino spunta un telo da spiaggia. Sembra averne preso di sole, quest'estate. Perché tanta fretta di prenderne altro?
Seguiamola per un po'. Secondo me, promette bene. Esce già dal Raccordo. Vediamo per qualche ora quello che fa.
2
“... e questa canzone compie gli anni proprio oggi. Ascoltiamola nella versione dell'Equipe 84. Ve la ricordate?”
“Seduto in quel caffè, io non pensavo a te”
("Giornale radio - Ieri, 29 settembre...")
Certo che se la ricorda: niente più pollice sul pulsante Next. Come mai una così giovane conosce una canzone tanto vecchia? Gliela cantava il papà da piccola, le domeniche in cui si alzava per primo e si faceva la barba. Lei si svegliava al suono del rasoio sulle guance, sembrava una farfalla notturna che volava. Lui scimmiottava il falsetto di Maurizio Vandelli. La bimba allora correva nel lettone, dove la mamma ancora dormiva, e si nascondeva sotto le coperte.
Vorrebbe averle registrate, le canzoni ovattate dal piumone. Una volta lo aveva fatto ma a quindici anni ci aveva sovrainciso una boy band. Tutta la vita le restava, per pentirsene.
Sempre le stesse. L'amore è blu, nella versione dei Renegades. Perché l'amore è blu? Ha un colore l'amore? E quale, si chiede ora che è sola e va forte sulla Pontina. Angeli negri, di Fausto Leali. Rideva sempre quando il papà mugugnava “Io sono un povero negro” storcendo le labbra sotto il rasoio, ma si fermava per non farsi scoprire. Io sono tremendo, con la ch di Rocky Roberts al posto della T. Roba anni '60, troppo vecchia anche per il padre; ma il nonno (che non aveva mai conosciuto) doveva pur radersi, forse gliele cantava lui. L'acceleratore le alza per un attimo il piede, mentre realizza che la tradizione di famiglia si interrompe con lei e le sue guance glabre.
Pregustava l'odore del mentolo da sotto le lenzuola. Lui arrivava, dava un bacio alla mamma, poi scopriva di colpo lei e le strofinava la testa sulla pancia. “Con ciucce le ragazze, sono ch-remendo”. Lei rideva, per le ch e per il solletico dei ricci neri. “Le lascio quando voglio, poi le riprendo”. Guardava la mamma. Davvero papà aveva tutte queste ragazze? E quando? Prima di noi? O dopo?
Poi tornava a guardarla, le cantava “Forse sei ch-remenda più di me”, e lei tornava a ridere. Quanti anni poteva avere? Tre? Quattro?
Chissà qual era stato il suo primo sorriso.
Chissà cosa aveva fatto suo padre, per averlo.
3
“Vedevo solo lei, e non pensavo a te”
Maurizio Maurizio, dovevi proprio dirlo? Il pollice al volante non promette niente di buono per te: a presto, stacci bene. Il salto della stazione ricomincia, a ritmi più furiosi di prima. Si ferma su una traccia techno senza testo né impertinenze.
Un restringimento la sposta a destra. Rallenta. Sulla corsia di sorpasso c'è una buca transennata. Niente operai al lavoro, chissà, saranno a pranzo. Dove mangiano gli operai? Chi sa i posti migliori, loro o i camionisti?
Su una seggiolina di tela a bordo strada c'è una puttana. Sembra nuda, ma indossa un bikini fosforescente, che la abbronza ancora di più.
Un libro le copre il pezzo di sopra. I pochi giri del motore le alzano gli occhi, i clienti arrivano così. Rari quelli che caricano in spalla, ancora meno chi arriva in mongolfiera. Cosa leggono le puttane? Cose brevi, prorogabili. E in che lingua? La loro o quella dei clienti? Possono finire il paragrafo se accosta qualcuno? Oppure li incattivisci – o peggio, li perdi?
La puttana le sorride. La ragazza accelera senza ricambiare né stupirsi di stare su un lato del finestrino così diverso.
Parcheggia la Smart sulla Litoranea. Stamattina si è mossa tardi, è quasi ora di pranzo, ma questa è una ragazza determinata. Avrà avuto i suoi motivi. Lega il volante con un bloccasterzo a forma di mazza. Cerca qualcosa nello zaino.
È un foulard bianco. Gioco di prestigio? Travestimento? Lo lega in testa, il sole ancora picchia. Scende così bardata dalla macchina e la chiude con un bip. Va verso un cartello che dice: “Il gabbiano magico”. Attraversa la strada.
Scende tra le dune a gambe nude. Poggia una Converse dopo l'altra sui gradini di legno e arriva in spiaggia. Minatori bruni smantellano il Gabbiano. Le sorridono da dentature parziali. Occhi arrossati dal sudore e parole arabeggianti le saltano addosso. Cosa farà la ragazza? Una riverenza? Andare col più forte? E quale? Ci vuole un combattimento, per scoprirlo. E dopo? Avrebbero ancora voglia? Oppure, concedersi a tutti. E a turno o tutti insieme? Al loro paese va così? E al nostro?
La ragazza, più scura di loro, sostiene gli sguardi. Tornano a smontare.
Cammina cammina sul bagnasciuga, la sabbia è compatta, si fa meno fatica. Più in fondo una donna di mezza età, pancia in giù, ai piedi della macchia mediterranea. Niente ombrellone, borsa colorata accanto. Libro aperto a prendere il sole pure lui. Edizione recente da autogrill, copertina troppo lontana per giudicare.
Matita agli occhi, a polsi e caviglie l'oro di Priamo. Per abbronzatura non sfigurerebbe in un museo egizio. Ha il pezzo di sopra slacciato, e il seno premuto sull'asciugamano. Si gira a controllare la ragazza. Per un attimo incrociano gli occhi. Con un talento di milioni di anni partoriscono quasi lo stesso pensiero.
'Se ce le avevo così grosse
'Se avevo ancora la sua età
non stavo al mare da sola.'
La ragazza si ferma trenta metri prima, tra l'acqua e le dune, a metà strada tra il Gabbiano Magico e il chiosco successivo, già chiuso del tutto. Entrambi lontani, e va bene così.
Posa lo zaino. Leva il foulard dalla testa, la fronte è sudata. Ci si asciuga, lo piega ancora intriso dei suoi sali e lo mette in una tasca esterna. Prende dallo zaino un materassino trasparente, morde la valvola e lo gonfia. Finisce più imperlata di prima. Lo ferma sulla sabbia con lo zaino.
Sceglie dei sassi piatti e li dispone agli angoli di un telo tribale colorato. Si leva maglietta, Converse e pantaloncini e resta in bikini. Estrae tabacco, cartine, filtrini, accendino e apparecchia la tavola. Comincia a mettersi la crema solare.
Dallo zaino Alice guarda i gatti, e i gatti guardano nel sole. Si pulisce svelta le mani sulle gambe e cerca il telefono. Lo schermo riporta un sorriso nascosto da capelli, più impertinente del solito, con scritto sotto “Amore”. Ma tutto questo Alice non lo sa, insinua il cellulare prima di essere zittito. Confeziona la prima di molte sigarette. La accende e si stende.
Ultimo tiro. Infila la cicca nella sabbia, a comporre un cuore con le altre che ha fumato. Il sole è meno alto, il tempo è passato; niente come una spiaggia solitaria fa pesare la sua esistenza. Prende dal sacchetto una pesca. La taglia a pezzi senza sbucciarla e la mangia, seduta sul telo fronte mare. Interra i resti. Tenta uno schema di parole crociate. A un certo punto, scuote la testa. Beve acqua da una bottiglia di plastica.
Dal Gabbiano (che avrà poi, di Magico) arriva uno. Stessa età, dreadlock corti e neri. Sulla spalla una chitarra piena di adesivi. Gli occhi funesti della ragazza lo rimbalzano verso il bagnasciuga. Si ferma a quaranta metri, tra una corretta prossemica e la voglia di interazione. Stende sulla sabbia un telo bianco con un punto esclamativo rosso sopra, e ci posa sopra la chitarra. Cosa estrarrà ancora, di molesto? Super Tele? Racchettoni? Questo ragazzo sembra venuto a disturbare. I racchettoni per rimorchiare vanno, ma lui sembra puntare sulla vena artistica. Dalla canottiera a confermare fa capolino una pancetta. A gambe incrociate, il coetaneo prepara una canna piena di allusioni. Un rumore di sonagli segnala movimento; sono i monili di Cleopatra, allertata dagli effluvi resinosi, che punta il periscopio. La ragazza vede, e sorride solo con le labbra. Oggi il mare non la rilassa per niente. Prende dallo zaino gli auricolari, li mette e si sdraia.
Dalle cuffiette la suoneria di un messaggio. Controlla lo schermo:
scusami (13.58)
ke stronzo ke sono (13.59)
non ti ho mai tradito (14.07)
Contemporaneamente, Amore richiama. Ah, i richiami dell'Amore. Abbassa la suoneria senza riattaccare, e rimette il cellulare nello zaino.
Gira l'ennesima sigaretta e se la accende. Ripone tabacco cartine filtrini e accendino nella tasca opposta a quella del foulard, e chiude lo zaino in una busta di plastica. Controlla alle sue spalle la donna a destra, e davanti a sinistra il coetaneo. Scava con discrezione una buca e ci nasconde lo zaino imbustato. Ci trascina su il telo e ci si siede, a gambe incrociate pure lei. Fa una boccata, sbuffa via il fumo e si mette in topless. Amore non gradirebbe; saranno in relazione le due cose?
Controlla il ragazzo, che sembra farsi gli affari suoi. Guarda anche Cleopatra, ma lo spazio tra il cappellone di paglia e gli occhialoni è troppo stretto da ispezionare. Fuma nervosa guardando il mare.
A pochi millimetri dal filtro, da sotto gli adesivi zoppica un arpeggio. La cicca va a completare il cuore. Non contento, il ragazzo inizia a cantare.
“There's a lady who's sure all that glitters is gold
and she's buying a...”
Prima di “Stairway to heaven” la voce si spezza. Commozione? Tenerezza? Finte o vere? Peggio di un talent, in ogni caso. Cleopatra emerge dal torpore e guarda. Il ragazzo smette di cantare, dio che imbarazzo. La ragazza prende il materassino e cerca riparo in acqua. Un angolo della bocca le sorride.
Ricordalo bene, questo sorriso. Sarà l'ultimo che le vedrai fare su questa spiaggia.
4
Quando entri in acqua non puoi tornare indietro. Anche se hai la pelle rovente e sei stata al sole tutto il giorno, e l'acqua sembra gelida. Due persone sono già gente, e stanno guardando te.
Oramai sei in acqua e devi ballare. Ti sdrai sul materassino pancia in giù. In realtà è calda, ma lo è più la pancia. Come si vivrebbe meglio senza sentirsi osservati. Questa non sembra una ragazza che si fa problemi, ma solo poche ore fa correva come una pazza di chilometro in chilometro, di stazione radio in stazione radio, verso un obiettivo, che pare sia questo. Quindi avanti a remare con le braccia fino alla secca, ancora più bassa per la marea. Si mette a sedere, tocca la sabbia coi piedi e indugia ancora (questo può concederselo). Si gira di schiena, cede altro calore prezioso.
Chiude gli occhi. Il materassino è trasparente e il mare è piatto, dall'alto sembra sospesa sull'acqua. Hanno fondato religioni, su cose del genere.
Sbircia con un occhio le schermaglie amorose dei vicini. Cleopatra è in piedi, e manda una gamba in avanscoperta dal pareo leopardato. Lancia sguardi al ragazzo, che ha deposto l'arma di seduzione a corde tese sul punto esclamativo. La donna sembra guardare anche la ragazza. Che pensa: per bilanciare il triangolo dovrebbe lei desiderare Cleopatra, e vivrebbero per sempre felici sulla spiaggia. D'inverno vivrebbero in una casa di canne, di non solo bambù. Oppure la scaverebbero nella sabbia, con una delle barche lontane per soffitto.
Ma i campi magnetici trasportano chiamate, messaggi, Amore non richiesto; decisioni da prendere. Il pensiero la desta. Per rilassarsi si impone sentori di yoga. Stende le gambe e lascia penzolare le braccia. Una mano finisce nell'acqua. È calda. Respira profondamente. Funziona, quasi dorme.
D'un tratto un grido copre le distanze. Gira di poco la testa.
“Ehi!”
Che sfacciataggine: a chiamarla è il ragazzo. Lei finge di non sentire. Dopo altri tentativi più incerti lui desiste, goffo come se invece di “Ehi!” avesse esclamato un Bang! o un Gulp. È un’impressione o l'ha mandata affanculo? Sia come sia, pericolo scampato. Riprende a sonnecchiare.
La bambina gioca col secchiello nell'acqua bassa.
Un paio di “Alice!” e s'incammina verso la spiaggia.
“Quando i polpastrelli raggrinziscono devi uscire.”
Se li guarda. “Perché raggrinziscono?”
“Per l'evoluzione. Così gli uomini primitivi potevano afferrare le cose anche in acqua senza farsele scivolare via.”
La mamma torna a occuparsi delle sue faccende. Piega la rivista e la posa sulla borsa, distende sul lettino un lembo di asciugamano che il vento aveva ripiegato, sistema l'ombrellone. Cose poco interessanti, da grandi. La bambina si china sul secchiello e torna a giocare da sola. Stringe la paletta per controllare l'impugnatura.
La ragazza invece si sveglia, si stiracchia. Controlla sul serio i polpastrelli: quelli in acqua sono raggrinziti. Ha la faccia arrossata. Guarda il cielo coprendosi gli occhi ma non serve, il sole è più basso, la luce è cambiata. Si gira verso terra: si è spostata. La corrente l'ha portata a riva, all'altezza del chiosco chiuso. Lontana tra le piante grasse una villa moderna dalle persiane abbassate. Si mette a pancia in giù e rema verso il Gabbiano, parallela al bagnasciuga.
Sulla spiaggia nessuno. Il ragazzo se n'è andato, anche Cleopatra non c'è più. Forse hanno combinato, ma la ragazza non ride, è inquieta come quando di domenica fa la doccia per ultima in palestra. Aumenta la frequenza delle bracciate. Esce dall'acqua e molla il materassino.
“No, no, no” bisbiglia. Nessun segno delle sue cose. Cerca dov'era il telo, ma la sabbia è irriconoscibile. Su un giunco basso, nel cuore di cicche, veleggia un biglietto.
“UN GIORNO TI ACCORGERAI DELL'IMPORTANZA DI CERTI SGUARDI”
5
Si guarda intorno, sibila a labbra chiuse. “Pezzo di merda... fricchettone maledetto”. Il sole scivola nell'orizzonte, tuorlo crudo e inesorabile. È sola e a seno nudo, scalza e con appena due centimetri di poliestere tra le natiche. Rabbrividisce, è pur sempre settembre. Si abbraccia le spalle con le mani. Guarda a terra il materassino, di cui traspare l'inutilità coprente. Vorrebbe sotterrarsi nella sabbia, la sente ancora calda sotto i piedi. Il cervello passa immagini di repertorio: sabbiature ai cuginetti, cowboy e indiani dei Tex del papà, sepolti fino al collo in pasto alle formiche rosse. Beati loro, le sospira l'inconscio. Guarda la carcassa del Gabbiano in decomposizione. Si muove svelta.
Del Gabbiano è rimasto lo scheletro ligneo, a perdita d'occhio non c'è nessuno. Alice cerca qualcosa con cui coprirsi. Poi vedrà come avviare la Smart senza chiavi. Non le viene in mente che nello zaino c'erano anche quelle di casa, e la coinquilina dopo la sessione di settembre se ne è tornata dai suoi.
Una problema alla volta. Senza fretta. Si mette a cercare. Teli, brandelli di ombrellone, qualsiasi cosa. Pure nei secchi dell'immondizia, ma sono vuoti. Rimpiange il lassismo delle amministrazioni comunali della città. In uno però c'è una busta di plastica, con dentro ancora qualche schifezza. La prende dai manici e la svuota nel secchio. La svolge, può farne un gilet. Ne lacera il fondo, si sporca. Fa una faccia schifata. Si pulisce con la sabbia e prova a infilarsela lo stesso. Ma è di quelle dell'umido, beffarde e inutili, e si strappa. La getta nel cestino. L'acqua salata inghiotte il sole a velocità mai viste.
Si siede sulla pedana di legno, rampa di lancio per il Gabbiano dell'anno prossimo. Per terra giace un mozzicone, spento a metà lunghezza. Lo considera con l'alluce, lo prende tra indice e medio e lo guarda. Annusa la parte bruciata, ma non le dà alcuna soddisfazione. Avvicina il beige alle labbra. A pochi millimetri la maciulla e la getta via.
Sale le scale di legno, abbracciandosi senza affetto. La luna piena rischiara l'imbrunire. Si punge i piedi, arriva in strada. L'unica macchina a perdita d'occhio è la sua Smart. Inutile avvicinarsi, ciononostante la raggiunge. Prova ad aprire le maniglie, laterali e posteriore, senza chiavi né risultati.
I fari di una macchina accendono il fondo strada oltre il Gabbiano. La ragazza si gira e le corre incontro. È un'auto sportiva. Rallenta. Dal vetro che si apre filtrano gli sguardi di due ragazzi, ma più che alla situazione le puntano al seno, esile come le dita che tentano di coprirlo. Ridacchiano. Lei tace, e indietreggia fino alla Smart. L’auto riparte e scompare nel panorama.
Da cui dopo poco arriva un'utilitaria. Alice vuole vedere chi c'è. Pare un ragazzo, con fidanzata al fianco. Accelera entusiasta il passo. Con un braccio si copre il seno, con l'altro lancia gesti di richiamo. Il ragazzo fa per accostare, ma dal sedile del passeggero la sua dolce metà si batte le tempie con l'indice, a coprire il suono delle sirene di Ulisse. L'utilitaria accelera, e si perde all'orizzonte.
6
Alice cammina senza convinzione verso il Gabbiano. Lì erano le sue cose, ma il paese è dalla parte opposta. Non sa che fare. Spunta un'altra macchina. Una berlina, vecchia ma in buono stato. Scruta all'interno. Un uomo di mezza età con folti baffi la guarda inespressivo. Lei prende coraggio. Si avvicina al finestrino, socchiuso. La macchina accosta senza spegnere il motore.
“Buonasera... mi scusi... ero in spiaggia... mi hanno rubato tutto mentre facevo il bagno... per favore mi aiuti la prego, mi faccia fare una telefonata.”
Tace, spossata dal discorso. Non sentiva parlare qualcuno dal giorno prima, e quel qualcuno ora è lei. Il suono della sua voce la stupisce, come a sentirla registrata.
Certo è strano, sembra un abbordaggio. Chissà se ci pensa anche il baffone. Per come stanno andando le cose, alla puttana della mattina forse adesso sorriderebbe.
Il baffone spegne il motore, prende dal taschino della camicia il cellulare e glielo dà.
Alice afferra il telefono dal finestrino. Accende lo schermo, familiarizza con la tastiera. Poi si ricorda del suo salvatore.
“Grazie, grazie! Lei è l'unico, finora...”. Torna a digitare. Esita, s'interrompe.
L'uomo la guarda.
“No, è che... non mi ricordo... non so a memoria nessun numero tranne il mio... Come posso fare?”
Il baffone aggrotta un sopracciglio. Pensa. “Stai in paese?”
“No... a Roma ma vicino, Roma sud!”
“Sali.”
Alice tocca la maniglia, chiusa con la sicura. Sorride al baffone aspettando che la apra. Lui non la guarda. Sembra controllare in giro. Lei si fa seria. Lui apre la sicura girato altrove.
Lei non sale. Lui finalmente la guarda.
“SALI!”
Alice fa un passo indietro. Il baffone apre la portiera e scende. Inorridita, scappa tra le dune dal lato opposto al mare. Lui sembra seguirla. Alice si nasconde dietro un'agave e gli urla “Vattene!”. Si guarda attorno, prende dei sassi, glieli tira e scappa ancora - ti dicevo che c'era da divertirsi. Afferra un bastone ma è troppo corto. Corre via tra le dune, verso il Gabbiano.
È notte. Si copre il seno con le braccia, girandosi ogni tanto. Cammina tra le dune a bordo strada. Controlla i piedi: sanguinano. Rabbrividisce. È assurdo non sapere nessun numero. Tranne quello di Amore, ma non se ne parla.
Amicizie che stiano a Roma? A cui chiedere di farsi due ore di macchina all'andata e due al ritorno? Davvero non ha amici, a vent'anni? Quando si è ridotta così? E quando ne avrà cinquanta come farà?
Tanto, pur avendone, non ne saprebbe il numero. Ecco finalmente le scalette del Gabbiano. Ma 'finalmente' perché? Cosa la aspetta di buono al Gabbiano? Aria di casa? Ma se è là che è iniziato tutto. Alice esita prima di scendere, e guarda qualcosa fra la vegetazione.
È un camper. Bianco, squadrato come non ne fanno più da decadi, con una striscia marrone e arancione per cintura. Vecchio, piccolissimo. Ma ha un che di magnifico: un finestrino aperto.
Mica serve molto ora, ad Alice. Un coltello, una maglietta, un accendino. Quel finestrino è magnetico. Qualsiasi cosa è meglio del nulla che ha. Non ultimo un riparo, o un nascondiglio.
Si avvicina. “Blessed life”, recita un vecchio adesivo. Pensa se era damned. “Jesus watches you” le rammenta un altro, al che si aggiusta il braccio al seno. Vecchi hippie, pensa, questo camper pare uscito da un viaggio in LSD. Possibile che arrivi dalla East Coast? Forse una coppia inglese. Ma anche gli anglicani si esaltano così?
L'importante è che hippie o anglicani abbiano lasciato suppellettili. Si avvicina, l'interno sembra vuoto. Il finestrino è a baionetta, con l'apertura in basso, ma lo spazio è piccolo e infila solo un braccio. Questo la salva.
7
Un gatto salta fuori dal finestrino. “Cristo!” impreca Alice a voce alta, ancora appiccicosa di religious stickers. Povero gatto, pensa dopo. Cosa pensava gli potessi fare? Il suo baffone di stasera sono stata io. Buona fortuna gatto, ora tocca a me, mica posso andarci sempre di mezzo io.
Gira intorno al camper, fino alla porta. È aperta. L'interno è vuoto, cicche di sigarette a parte. Qualche siringa a dissuadere. Pure come riparo è inutile, il finestrino non si chiude, la porta neanche. Per terra una stella a spruzzi rossi, qualche ragazzino avrà giocato a evocare il Male con gli amici.
Di mali Alice ne ha abbastanza, e vederli evocati non aiuta. Esce dal camper, scende le scale, è di nuovo in spiaggia. Guarda la pedana dove si era seduta. Prosegue in direzione dell'altro chiosco, verso il paese. Ora la sabbia è gelata.
Dalla cima delle scale la luna segnala l'ingresso in campo del BAFFONE. Scende sincronizzato ai passi di Alice, porta in spalla una borsa. Un gradino scricchiola nella notte, accidenti, proprio a metà. Alice si gira ancestrale, allertata dal rumore. Predatore o preda?
Predatore. Lei strilla un “Nooooo! Vattene!”. Da che punti di forza? Su quali basi dialettiche? Guarda la borsa, stregata dalle possibilità. Ha righe larghe orizzontali, come la maglia di Freddy Krueger. Che contiene? Thermos di caffè, coperte, abiti caldi? Accendini con cui accenderle i mozziconi? Una raffinata scelta di libri da leggerle prima di addormentarla per sempre? Attrezzi da falegname, seghe, morse, insieme ai gingilli erotici preferiti?
Quella borsa trasuda professionismo. Rivela organizzazione. Estemporanea? Arnesi raccolti a caso dal portabagagli, o era già pronta? È passato all'azione adesso, dopo una vita di desiderio, o è uno in carriera e ha un suo metodo? E cosa sarebbe meglio? Un inesperto, con falle di cui approfittarsi ma dai metodi dolorosi? O uno bravo da cui non scappi, ma pulito più di un chirurgo? Quanti pensieri in una borsa. Una borsa piena di pensieri.
Di certo il Baffone la trova utile, al punto da portarsela appresso e aumentarsi il peso. Non trascurabile, pensa Alice vedendogli la pancia ballare sulle gambe secche. Perché il baffone ha sceso le scale da un pezzo e viene da lei. Sarebbe bello fermarsi a pensare, il pensiero è tutto. Ma si può fare solo nei sogni. Pensare è un lusso, nella realtà c'è solo da muoversi.
Alice parte di scatto, un attimo prima di lui. Rieccoli sincronizzati procedere – d'amore? d'accordo? Non li separa un grosso tratto. Alice è scalza, considera la pista di sabbia che ha davanti, la mise dei concorrenti e la strategia di gara più opportuna. Il Baffone indossa mocassini neri, jeans blu scuri e una camicia a maniche corte. Porta lenti fumé da vista. Lei, 50 grammi di idrorepellente sintetico. Quindi si tuffa in acqua.
Libera dal suo stesso abbraccio funziona bene. Le braccia recuperano utilità, la nudità è un vantaggio, e appena in acqua replica uno schema. Stile libero, ogni tre bracciate una boccata d'aria, a destra e a sinistra, per antiche ragioni di simmetria (aveva fatto preagonistica, senza mai chiedersi perché in piscina nessuno controlli i polpastrelli). I nuotatori in gara respirano ogni due. Più nuota, più il terrore si scioglie. Andrebbe più veloce del Baffone anche facendo il morto a galla. Che forse è quello che vorrebbe farle fare lui.
E il Baffone? Non si aspettava questa piega, per lui il mare è una fortezza inespugnabile. Chissà se sa nuotare, a vederlo non ne ha l'aria. Con gli occhi di un cane educato alla tavola di padroni egoisti la guarda svanire in una direzione inconcepibile, la quarta dimensione di un film di fantascienza fatto bene. Saltella da un piede all'altro per non bagnarsi i mocassini.
Alice si ferma, trionfante. Da quanto non lo era? Quasi non prende fiato, nonostante i cuori di sigarette composti tutto il giorno. “Allora? Hai paura del raffreddore? O hai mangiato troppo a merenda, eh, ciccione? La mamma non vuole che ti fai il bagno?”
Il Baffone posa la borsa a terra e ci si siede. Alice si pente della provocazione. Che bisogno c'era? Mica può restare in acqua per sempre: il raggrinzimento conquisterebbe spazi pericolosi, toraci, spalle, avambracci, fino a raggiungere il cervello. “Morta di cervello raggrinzito”, che necrologio da schifo. Prova ad allontanarsi e nuota via, parallela alla spiaggia. Lui si alza e la raggiunge in pochi passi. Più efficace di tanti discorsi le si risiede davanti. Forse Alice ha cantato vittoria troppo presto. O forse no. “Va bene, ciccione. Vediamo cosa gli racconti alla gente, domani mattina.”
Matto, in una mossa sola. Il Baffone non fa una piega, poi si alza. Guarda la borsa a terra, torna a guardare Alice. Raccoglie la borsa, si gira e muove in direzione del Gabbiano. In cima alle scalette, prima di sparire nel buio, si ferma e la guarda ancora, pieno di rimpianti. Cosa aveva nella borsa? Tutto questo Alice non lo sa. Ma teme che verrà aspettata fino all'alba in una comoda berlina. Vecchia, ma in buono stato.
8
Si sta bene nell'acqua. È calda. Possibile sia meno umida dell'aria? Lì dentro non ha brividi. Ma il richiamo dei polpastrelli è irresistibile, e non c'è niente da afferrare a dare un senso. Stando attenta ai ritorni di fiamma esce dall'acqua, e prosegue verso il chiosco opposto al Gabbiano.
Lo supera. Si ferma davanti all'incannucciata della villa. Cerca un varco nella rete. Lo trova, ne alza un lembo. Si introduce nel giardino e arriva alla porta d'ingresso, chiaramente chiusa. Prova inutilmente ad aprirla. Gira intorno al perimetro della villa, in perlustrazione.
Belle le ville sul litorale pontino. Strano che non l'abbiano violentato come altrove. Ognuno si faceva la sua come voleva, purché avesse quattrini, un bel condono a cose fatte e chi s'è visto s'è visto. Poteva essere uno scempio, quando si lascia fare a gente che con tutto lo spazio che c'è gioca a racchettoni o ti strimpella vicino, facile che si dia sfogo ai bassi istinti.
E invece, queste ville. Sfrontate, sfacciate, piene di curve. Sensuali a godersi il sole da vetrate e lucernari, interrate nella sabbia della macchia mediterranea. Questa che tocca Alice ha la muratura in calce bianca. Tasta le finestre, tutte saldamente chiuse. Tenta quella del seminterrato che sembra più precaria. Non cede. Cerca qualcosa per far leva, trova un bastone, lo prova ma si spezza. Getta il moncone sulla sabbia del giardino. Trattiene un urlo. Ringhia.Aspetta un attimo, lasciala riposare. Vedi? Va già meglio. Adesso siede su un muretto basso, con la schiena appoggiata alla casa. Nelle intenzioni dell'architetto la veranda doveva simulare la passerella di una nave, da cui controllare il mare. Alice vi si ripara e guarda il mare pure lei. Chissà che pace in quella veranda, pensa che bello guardarci il tramonto. Che serate ci si faranno, c'è pure il barbecue. Ecco lì sul davanzale, a portata di braccio, finalmente, un accendino. Un Bic blu scuro di quelli grossi, intonato ai colori della notte. Lo prende senza alzarsi. La pietrina si inceppa ma poi si accende. Avesse adesso il mozzicone del Gabbiano! Vede vicino un portacenere. E certo: come si può far tramontare il sole senza fumargli appresso? È una valva di conchiglia. Alice fa una boccata immaginaria e ci cicca dentro, in uno dei gesti di quando nessuno ti vede.
Poi lo prende. L'interno è pulito, qualcuno l'ha lavato prima di partire, giusto un po' di salsedine. Lo annusa, più che di cicche profuma di mare. Lo rimette a posto.
Balla su uno spessore. Come se il davanzale non fosse liscio, o se ci fosse sotto qualcosa. E che? La luna è coperta dalla veranda, il buio oscura tutto. Lo tocca.
Un pezzo di scotch nasconde una chiave. Piccola, piatta, irruvidita dalla salsedine. Non da ingresso principale, la porta era massiccia; da cancelletto o da cantina. Ma che senso ha nascondere in giardino la chiave di una stanza interna? Quella deve aprire casa, ragiona Alice. Si alza con in mano i suoi nuovi tesori. In effetti, oltre alla porta d'ingresso ce n'è un'altra. Avvicina la chiave alla serratura. Sembrano compatibili. Quando provava a forzare la finestra era più determinata, qui potrebbe riuscire e allora esita, come temesse che Gesù ti guarda. Deflora la toppa, nonostante l'ossido la chiave gira.
È un locale caldaia. Dentro è appesa al muro una sdraio, piegata e arrugginita. Poi un'altra porta.
Chiusa a chiave. Ma ancora, che senso ha lasciare una chiave di sicurezza sotto il portacenere? Coi raggi della luna a rischiarare, Alice cerca. La tela della sdraio non rivela nulla, la caldaia invece sì. Un'altra chiave, dentro lo sportello, infilata nel plico delle istruzioni. La porta si apre. Dà su scale buie. Pare che chi le ha fatto trovare chiavi e accendino abbia organizzato proprio bene. Trappola mortale? Ma cos’ha più da perdere? Alice innesca il gas e sale.
9
Le scale portano al livello principale. Un salone le si para davanti. L'unica luce è la sua fiamma, che inizia a scottare. Alice lascia il pulsante e ci soffia sopra. Riaccende. C'è un interruttore alla sua sinistra. Figurati se funziona, avranno staccato la corrente, finora non gliene è andata una bene. Invece i faretti del controsoffitto si accendono. Magari lasciano il frigo acceso per i weekend.
Che salone splendido. Che divano accogliente. Librerie in muratura, piani di legno chiaro come i tronchi di spiaggia, levigati dal mare. Fanno tanto, i soldi ben spesi. Alice guarda i muri pieni di libri. Sono riviste di arredamento, per lo più ville, per lo più sul mare. Certo: i libri staranno nella casa di città. Si siede sul divano. Ci si sdraia, si rannicchia, in posizione fetale si dice in questi casi. A guardarla dall'alto sembra un punto interrogativo. Anche se da un pezzo non si fa domande.
In una situazione come questa lavori di istinto. Le percezioni sensoriali, prima di arrivare al cervello, attraversano l'amigdala. E siccome l'amigdala le trova pericolose, le associa a esperienze di rischio senza attendere conferme. Alice era tesa fin dall'inizio, doveva andare al mare con Amore e invece c'è andata con rabbia. Sai le litigate tra fidanzatini dei vent'anni? Certi non se ne liberano mai, speriamo che ad Alice vada meglio. C'è gente che ama fare le cose da sola. Alice no, non l'ha mai fatto; e ora che è successo non le piace.
Rivorrebbe le guance del papà. O almeno un'amica. Per una ragazza sola, già non è facile stare in costume tutto il giorno; figuriamoci così. La sensazione di vulnerabilità è scambiata per pericolo effettivo. E lei è da un pezzo che si sente minacciata. Vorrei vedere la tua, di amigdala, a girare in topless pure lei.
Così a punto interrogativo sul divano, a goderne polvere e calore, riacquista i benefici del dubbio. Conviene cercare cibo? Bevande? Vestiti? Con un po' di pazienza lo sapremo. Torna verso le scale, vicino a un tavolino di vetro basso. Sopra c'è un vaso, perfetto cilindro di cristallo grigio. Lo accarezza da fattucchiera, senza ottenerne rivelazioni. Sotto, la spina del telefono. Un connettore tripolare di quelli di una volta, analogici, che non promette niente di buono. Sopra spicca il rosso di un Ericofon “Cobra” del 1953. Ottima annata, sembra ancora nuovo. Modernariato a caro prezzo o pezzo d'epoca? Prova a sollevarlo ma è muto. Vorrei vedere: a che serve una linea fissa in una casa disabitata?
Altre scale salgono al primo piano. Le percorre. Una porta socchiusa rivela un bagno. Accende la luce e apre il rubinetto – anche l'acqua hanno lasciato aperta, forse coi soldi risparmiati per la linea fissa alimentano fontane e giochi d'acqua nei cortili interni. Infila la faccia fra il getto e il lavandino senza pensare. La sputa, è marrone e resta cattiva anche dopo che scorre. Guarda la doccia. Apre l'acqua calda. Attende. Mentre il vapore appanna lo specchio, esce sul pianerottolo. Una porta spalanca una camera matrimoniale. Entra, trova l'interruttore. Niente foto di famiglia alle pareti, forse l'arredatore non era d'accordo. Apre un armadio, vestiti maschili e femminili. Avranno figli? Probabilmente no, o qualche foto ci sarebbe. Apre una cassettiera. Sceglie una felpa, e i pantaloni di una tuta. Torna sul pianerottolo e spegne la luce al piano di sotto.
Da una macchina in movimento sulla Litoranea qualcuno assiste alle intermittenze delle tapparelle. Rallenta, accosta a un cancello e spegne i fari. Una portiera sbatte. Pare che ad Alice non andrà bene nemmeno questa.
La doccia non basta a coprire il frastuono di vetri infranti. Alice, già fuori dal getto e avvolta capelli e busto in due asciugamani, tende le orecchie. Non può sentire imprecare a mezza bocca, non può vedere i mocassini accanto ai cocci del vaso di cristallo; ma il frastuono le basta. L'amigdala Riparte.
Esce dal bagno senza chiudere l'acqua e spegnere la luce. Chiude la porta a chiave dall'esterno e si infila nella camera da letto, che lascia buia e spalancata. Ascolta i passi sulle scale. La persiana che dà sul balcone è chiusa a metà. Apre il vetro, coi passi sempre più vicini. Il giardino e la salvezza distano un solo piano. Guarda con rimpianto la tuta sul letto lontano, vi tira sotto la chiave del bagno, poi esce e si accosta la finestra alle spalle. Il suolo sembra sabbioso. Salta.
Si rialza dolorante. Non sa cadere, non ne ha mai avuto bisogno. Si stringe negli asciugamani sporca di sabbia. Nascondendosi dietro ogni cosa arriva al varco da cui era entrata. Vede accendersi la luce in salone. Alza la rete, l'asciugamano che le copriva i capelli resta impigliato. Esce all'aperto. Dove nascondersi? I passi staranno ormai per arrivare in giardino. Considera la parte opposta alla villa. Fa il secondo bagno notturno della sua vita.
Entra in acqua avvolta nell'asciugamano superstite, per non lasciare tracce sulla spiaggia. Nuota fino a una boa e ci si ripara dietro, a spiare la casa. Il salone resta acceso per un po'. Chiusa nell'asciugamano dentro l'acqua, il sale torna a riempirle ogni poro. Finalmente la luce si spegne. Dopo un'infinità, un motore si accende e si allontana nella notte.
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Alice esce dall'acqua. Lascia l'asciugamano sulla sabbia, e con lui un bel po' di mare. Si lecca le labbra in salamoia, rattrappite di brutto, altro che polpastrelli. Avrebbe bisogno di una bella doccia, sembra dirsi guardando la casa.
Da un po' non ragiona, funziona e basta. Quindi è strano che un riflesso sulla spiaggia la interessi. Moneta o gioiello che sia, cosa farsene in frangenti simili? Si è sempre lamentata, Alice, di non aver mai trovato per terra niente di prezioso, quando invece tante delle sue amiche sì. Lucrezia addirittura una catenina d'oro. Che poi non è vero, perché al ginnasio con Giulia avevano visto cinquanta euro sul brecciolino di villa Ada (prima Alice però, anche se non lo ha mai rivendicato). L'arancione piegato sembrava un volantino, un pacchetto di gomme vuoto, una cartaccia. Invece erano 50 euro, e ci erano andate a mangiare il sushi da Bimyō il sabato sera.
Cosa riflette quell'argento luminoso? Un pesciolino, illuminato dalla luna piena. Alice lo guarda. Sembra atterrito, tutto occhi, come lei. Anche Alice ha gli occhi grandi, se ci fai caso. A chi da piccola glielo faceva notare, rispondeva con la fiaba preferita: “È per mangiarti meglio”. Triste automatismo, quando il pasto sei tu.
Ed è morto, il pesciolino? Come si fa a valutare? Potrebbe avvicinargli alle branchie uno specchio, e vedere se si appanna. Oppure, cercarne il battito. Ma il pesciolino non ha polso; come non lo ha avuto con Amore nemmeno lei. E chi lo ha ucciso? Risacche impossibili da risalire? Che morte stupida. Non le viene in mente ma può averlo lasciato lì un pescatore. In effetti quel pesciolino porta il suo stesso nome, ed è spesso usato come esca viva. Se Alice lo sapesse penserebbe: ma come si fa a infilzare un pesciolino dagli occhi grandi così? Fanno smorfie di dolore, i pesciolini? Questo ha gli occhi integri. Chissà se avrebbe preferito un'infilzata veloce a un'agonia sulla sabbia. Sta lì, nudo pure lui, a occhi spalancati su un mondo incomprensibile. Chiunque può guardare, chiunque può toccare.
Ha gli occhi rossi, Alice, ma non piange. E non è il sale. Non ha pianto nemmeno quando si sono separati i suoi. Con le sue ragazze il papà è stato ch-remendo per davvero. Però per piangere bisogna averne il tempo, la possibilità. Nessuno si ferma a piangere sotto le bombe, in una guerra mondiale pensi a nutrirti, a sopravvivere. A tramandare codici genetici. Chissà che gusto si prova a tramandare codici genetici. Suo nonno, nato nella Seconda, aveva sette fratelli. Alice invece, figlia di internet e Youporn, è figlia unica. Le lacrime fluiscono sui lettini degli psicologi, nei multisala, con le dispense piene. Non quando ti ritrovi nudo a occhi sgranati sulla sabbia senza respirare. Bisogna star bene, per soffrire.
Stanno lì tutte e due. Mute, pesci fuor d'acqua. Un'esca morta, l'altra ancora no.
Quella viva torna alla recinzione, per trovare riparo dalla luce lunare. Va più lontano da dove era il varco, in direzione opposta al Gabbiano. Si ferma davanti alla rete, sbigottita.
11
Per terra c'è il suo telo colorato. Sicuramente lui, per evidenti motivi tribali. Lo raccoglie e lo avvicina alle spalle, ma si ferma. Lo strizza, è zuppo di umidità. Lo lascia a terra. Si guarda il petto pensosa, dove a coprirla è ancora solo il braccio. Cerca vicino al telo, addentrandosi tra le dune. Il suo reggiseno è dietro la rete, probabilmente bagnato, sicuramente irraggiungibile. Cerca il resto ma non c'è. Torna sulla spiaggia e alza la testa in direzione del Gabbiano.
Ora cammina, quasi corre. Continua a controllare il panorama. “Stronzo, stronzo fricchettone figlio di puttana”, ansima. “Stronza pure io”. Arriva al foglio infilzato sul giunco, nel cuore di cicche. Lo guarda, lo sfila. L'umidità ha iniziato a sbiadirlo. Prende a camminare verso il mare e guarda in basso.
La sabbia lunare le accende una smorfia. Ferma il foglietto sotto un sasso piatto. Intorno ce ne sono altri tre. Inizia a scavare.
Eccolo, eccolo, lo zaino imbustato! Aveva solo rimosso il telo col reggiseno, quel vigliacco. Non aveva le palle di scavare, col rischio di essere beccato e farsi rompere la chitarra in testa. Poi ha buttato il bottino tra le dune e se n'è andato. Stronzo sì, ma mica stupido. Minimo sforzo, massimo risultato. Se solo avesse controllato meglio, Alice, prima di avviare la sua bella serata.
Cade in ginocchio, ansima, dissotterra. Rompe la busta di plastica. Apre la zip, espelle pesche, coltelli, calzoncini, Settimane Enigmistiche. Afferra la bottiglia, la apre e beve furiosamente. Si strozza. Scoppia in singhiozzi muti.
Si asciuga la bocca con la mano. Cerca la maglietta e la indossa. È fredda, rabbrividisce. Mette anche i calzoncini e le Converse. Trae nuova forza dalla succinta corazza. Estrae dalla tasca il tabacco e prepara una sigaretta tremante. La gira a bandiera, e nel tagliare la carta in eccesso la rompe. Recupera il tabacco e lo avvolge in una nuova cartina. Stavolta la chiude completamente. Accende e fuma, abbracciata alle gambe sulla spiaggia bagnata.
Finisce la sigaretta. Le sigarette hanno il difetto di finire. La infila a terra, lontano dal cuore, e ne fa un'altra. La tiene tra le labbra e prende il cellulare. La batteria segnala ancora un residuo di carica, avvisi di messaggi e chiamate non risposte. Indugia col pollice sul mittente. Ci ripensa. Torna sulla rubrica, il cellulare si spegne del tutto. Respira.
Guarda le cicche, vecchie e nuove. Fa per andarsene ma le raccoglie e le mette nella bottiglia vuota. Le lascia nel cesto della spazzatura, vicino al gilet. Possibile che, con quello che ha passato, ancora abbia a cuore l'Ecologia?
Quando nessuno la guarda, la gente è interessante. Perché è vera, e costringe a riflettere. Cos'ha che non torna, Alice? Sovrastrutture? La maestra delle elementari le ha lavato il cervello? Gesù piange pure per questo? Va all'inferno, se getta a terra le cartacce?
Pianga pure. È lui che sceglie di guardare. Si giri dall'altra parte, se è tanto delicato, in altri casi non si fa problemi. Non è questione di automatismi o bon ton: differenziare plastica e cicche vuol dire tornare alla civiltà. Vuole occuparsi di problemi normali, rassicuranti. Lascia sulla spiaggia il materassino, cui occorreranno 450 anni per disintegrarsi, senza notare la contraddizione. Sale con prudenza le scalette.
Combatte l'istinto ora inutile di abbracciarsi il seno. Spunta sulla Litoranea coltello in mano, e controlla la strada. Niente berline vecchie o nuove, solo la sua Smart. Procede zaino in spalla lontano dalle dune, in mezzo alla carreggiata. Arriva alla macchina. Apre con le chiavi, senza bip. Mette il coltello nella tasca della portiera e siede in macchina. Accende il quadro, sgasa. Quindi è questo l'attacco di panico, pensa spalancando i finestrini.
Guida con l'aria calda al massimo. Sbrana una pesca. Getta dal finestrino il seme, che inizia subito a biodegradare. Guarda una macchina sul ciglio della strada. Niente berline: è una Panda. Gli occhi le si accendono.
12
Affisso al finestrino c’è un punto esclamativo. Rosso, in campo bianco. Alice rallenta. Prosegue oltre e si ferma più avanti. Spegne fari e motore.
Senza girare la testa, guarda dallo specchietto. La Panda è parcheggiata vicino a una casetta bassa. Apre il finestrino. Dal primo piano luci lampeggianti, e i conati degli zombi di The walking dead. Freme di rabbia. Raccoglie da terra la mazza bloccasterzo e scende dalla macchina.
Gira eccitata intorno alla Panda mazza in mano, nel senso buono ma neanche tanto. Guarda il cofano. Soppesa lunotti, parabrezza, specchietti, finestrini. Guarda la finestra illuminata al primo piano.
Di nuovo in macchina prende il coltello dal vano della portiera. Prova a fletterne la lama appuntita, senza riuscire a curvarlo troppo. Prende dallo zaino qualcos'altro. Scende.
China a terra dietro la Panda, affonda la lama in una gomma. Niente rumori di esplosione, come sperava. La squarcia per più centimetri e fa lo stesso con le altre. Lascia sotto il tergicristallo il foglio con scritto “Un giorno ti accorgerai dell'importanza di certi sguardi”.
Di nuovo alla guida socchiude gli occhi ogni tanto, e li riapre di scatto. È il down. Sale sulla rampa che porta al Grande Raccordo Anulare, direzione Fiumicino.
Ma non è mica finita.
13
La villa al mare, la decappottabile, il filo di perle, la pelliccia. Come cambiano i desideri.
Certo, c'è villa e villa. Quando si dice “Villa al mare” deve trattarsi di una villa - al - mare. Quindi: sul mare. Dove esci in giardino e sei in spiaggia. Fai il bagno, torni in giardino, entri nella doccia in muratura vicino al barbecue e ti sciacqui per bene. Oppure col tubo. Farai lo shampoo prima di cena, che magari ci scappa un altro tuffo.
Bisognava avere un lotto sul mare e soldi; permessi no, non c'era bisogno. Buon gusto, e una visione chiara di ciò che sia comodo. Mica dovevi essere un principe ereditario, bastava qualche risparmio. Ai tempi la seconda casa se la comprava anche uno statale, in comodi mutui trentennali.
Ma una villetta a schiera su una provinciale? Un piano terra con giardino, se si può dire per un cortile piastrellato; o un primo piano terrazzato. Coi muri a cortina se hai presente, mica veri mattoni: piastrelle che ne riportano il profilo a rettangoli sfalsati. Che poi si rompono e hanno sotto la calce, e la fanno sembrare più vecchia, meno moderna, anche se fatta vent'anni dopo.
Può ancora definirsi “Villa al mare”?
In una Villa al mare ci sei tu, la tua famiglia e i tuoi ospiti. I rumori li fanno solo loro. Niente passi sulla tua testa, di persone che saluti a stento e maledici più volte al giorno. Che quando decidono di festeggiare un compleanno nel fine settimana in cui vai anche tu, ti fanno rimpiangere l'ufficio.
In una Villa al mare il parcheggio è dentro, in fondo al viale, e ci entrano decine di macchine. Mica per strada, che dal venerdì alla domenica è piena, di macchine e parcheggiatori abusivi, e pure a trovar posto al mare devi andarci a piedi o in bicicletta, sotto il sole, bardato di ombrelloni, sdraio e borse termiche.
Nella Villa al mare in calce puntinata bianca non c'era nemmeno il televisore. E nei cassetti non tenevano pellicce, ma felpe grigie di Postal Market.
Invece, questo rivestimento in cortina cela 65 pollici di schermo al centro di una parete attrezzata di truciolato impiallacciato, che sfiorato da un'unghia esplode come un petardo in segheria. Buona fortuna con la salsedine, che il parcheggio lo trova anche a chilometri dal mare.
Fuori, le macchine degli ospiti lungo la strada. Vera plastica a scimmiottare cromature. Qualcuna perfino con tettuccio apribile. Dentro, altro che felpe grigie. Il più insulso indossa il mensile di una commessa. Guarda quello col mento sfuggente, mingherlino. Occhiali a specchio nel taschino, 150 euro. Orologio digitale rétro anni '80, 200 euro. Camicia con iniziali ricamate, 130. Jeans a risvoltini alti, 90. Sneaker firmate corpo 30, 150 euro. Con lo stipendio da commessa ci siamo, ti risparmio il cappello con la tesa a strappi finti, cinture, collanine, bracciali, portafogli e smartphone.
Modi diversi di investire. Qui abbiamo giovani di una Roma bene, figli di professionisti, che possono finire taggati in qualche foto; e allora meglio indossarli i propri beni, che seppellirseli nelle macchie mediterranee. Tutti felici, nessuno triste, e ci credo. A stare in disparte, tutti eviterebbero la tua bolla d'aria. Non resterebbe che estrarre il cellulare e meriggiare, pallido e assorto.
Entrano ed escono dal giardino. Scherzano, bicchieri in mano. Bevono, fanno autoscatti. I più trasgressivi non hanno neanche tatuaggi. Come fanno a essere sempre pieni, i bicchieri, eppure bevuti? Come possono le sigarette essere sempre accese? Dove ciccano? Per terra, come in giardino? Portaceneri non se ne vedono, ma di mozziconi sul pavimento non c'è traccia.
Di che parlano?
Esami universitari, dj set, ristorantini tipici, giapponesi All you can eat. Le corna più recenti di Poppy, il mingherlino dal mento sfuggente. Il prossimo viaggio in Messico, ma mica in resort: tutto fai da te. Cultura, tradizioni, rovine maya, cibo; e ovviamente il mare. Due scali all'andata e due al ritorno, per non strapagare il viaggio. Che poi una volta lì non spendi niente, si va in gruppo, macchine a noleggio.
Parla da mezz'ora, la messicanda. Un ideogramma le sbuca dai capelli sotto la nuca. Cosa vorrà dire? “Faccio cose solo per vantarmi”? “Non ti azzardare a interrompermi”? Guardala, sembra messicana davvero, già abbronzata a fine maggio – o è di carnagione scura? Più parla, più sembra messicana. La sua interlocutrice invece è chiara, capelli lunghi, e tace da un bel po'. Chissà se le interessa, il Messico, o se è rimasta intrappolata nella conversazione. Forse non aveva alternative tra questo e il suo display. Vediamo se ha la faccia annoiata.
Non ci crederai ma è Alice. Quanto tempo! Quasi un anno. Sfoggia la sua espressione imperscrutabile, forse rimpiange i comandi al volante della Smart. Non le manca certo altro, di quella giornata.
Arriva uno sui trent'anni, rasato, massiccio, le porge un calice e la bacia sulle labbra. “Vai da Tommaso, il vino lo apre lui”. Indica un tipo di spalle che armeggia al tavolo con un cavatappi. “Così lo conosci”. Hai capito, Alice. Se la passa alla grande, altro che tappezzeria. Nuovo fidanzato, nuovo look, conoscenze, viaggi internazionali. A dispetto delle sue paure, di amicizie questo inverno pare averne fatte.
Muove verso il tavolo, gli arriva alle spalle, dice: “Tommaso”. Tommaso si gira. Sorridi Tommaso, finché sei in tempo. Ha i dreadlock lunghi ed è più magro. Porta la barba ma è lui senz'altro. Le guarda i capelli. Sono cresciuti anche loro ma gli occhi restano grandi e il viso è quello. Purtroppo, pensa Tommaso, anche se la prima volta non gli era spiaciuto.
Le facce violano ogni etichetta: ora lei esploderà, le schegge si conficcheranno in persone e cose, per poi giacere tra le bottiglie rotte. Questa festa si rivelerà un bomba, gli invitati ne parleranno per anni. Per dirne una: cosa succederà tra Tommaso e il trentenne massiccio? Si stapperanno ancora a vicenda le bottiglie? Lui posa la sua e mette letteralmente le mani avanti.
“Scusa, scusa, scusa!” Arretra di un passo. “Mi dispiace!”
“Pezzo di merda, vorrei vedere!”
“Ho sbagliato a lasciarti lì, dovevo darti una mano... ma m'avevi fatto rosica'!” Alice cambia espressione.
“Avevo visto che ti portava via l'asciugamano... ho provato a chiamarti, ma tu non m'hai risposto... e invece ero sicuro che m'avevi sentito”, sorride Tommaso. “Ho pensato che forse la conoscevi... che te l'eri tirata per tutto il giorno, e che non erano affari miei. E me ne sono andato.”
Alice lo guarda trasognata. “E comunque non ti preoccupare, sono stato punito pure io”. Continua a guardarlo, senza espressione. “Doveva essere una psicopatica. La mattina dopo sono sceso di casa, e avevo le gomme squarciate. Tutte e quattro. Già è brutto una, ma quattro? La ruota di scorta è una sola. Che fai? Solo di carroattrezzi, trecento euro. Che chiaramente non avevo appresso. Né da nessun'altra parte...”
Ora ride, Tommaso. “I buffi ho dovuto fare, per quella pazza! Le gomme squarciate mica si aggiustano, le devi comprare nuove”. Si fa serio. “M'ha seguito a casa, ma ci pensi? E ha aspettato, per ore intere ha aspettato! Perché dopo cena le avevo viste, ero sceso a prendere la... chitarra...” esita Tommaso, al ricordo di un'esecuzione poco fortunata, a pensarci quel particolare l'avrebbe omesso. Lei fa cenno con la testa a incoraggiarlo, a non preoccuparsi e andare avanti, che ogni musicista conosce prima o poi un pubblico difficile. Continua così Tommaso, è meglio che strimpellare o girar canne. A dire le cose come stanno non si sbaglia. L'autenticità è la migliore politica.
“E insomma, la chitarra stava sul sedile di dietro. Se le gomme erano bucate me ne accorgevo. Ti rendi conto? S'è nascosta, ha aspettato che me ne andassi anch'io, m'ha seguito e poi ha aspettato la notte, quando dormivo.”
Lei trasecola, lui continua. “Per forza è stata lei. Sul parabrezza c'era un biglietto fradicio. Quasi non si leggeva più che c'era scritto... non indovineresti mai! Un giorno ti accorgerai dell'importanza di certi sguardi. Ma che vuol dire?”
Alice non risponde. Guarda fisso Tommaso, dimentica del tritolo inesploso. Nonostante tutto le viene da ridere. “Non ci potevo credere. Un giorno ti accorgerai dell'importanza di certi sguardi. C'ho pensato per mesi. Evidentemente voleva che... le parlassi, ecco”, dice Tommaso a sguardo basso, incredulo di essere stato desiderato, quel giorno, da qualcuna; ben ricordando quanto sia sgradevole provare la sensazione opposta.
“Ce l'ho ancora quel foglio, lo sai? Me lo sono conservato! L'ho pure scansionato, che se poi non si legge almeno ho una prova... perché se la rivedo la denuncio! Oppure no, perché se pure le danno vent'anni quella esce e mi segue... segue i miei figli, i nipoti... e allora mi sa che non me la cavo con le gomme del Pandino”, dice l'eco del riso di Tommaso nella testa di Alice. Che pensa al caso, alla sorte, al destino. A come sarebbero andate le cose quella sera se il Baffone fosse stato più scaltro. In fondo lei non ha alterato nulla. Anzi, cambiando il destinatario del foglietto ha rimesso a posto tutto: grazie al suo intervento, ogni sottovalutatore di sguardi ha avuto il suo castigo. E Cleopatra doveva prendersela più con Tommaso che con lei, colpevole solo della sua giovinezza.
Vede Tommaso tornare a casa e decidere se studiare per bene gli arpeggi di Jimmy Page, o apprendere approcci più autentici. Diventare adulto, non solo per la barba. Tutto per un foglietto slavato e quattro gomme bucate per sbaglio. Chissà che direzione gli avrebbero preso le vite, senza aver visto Amore in palestra a baciarsi con una. Le piacerebbe vederla dall'alto la gente, le scie luminose che lascia al buio. Si fa seria.
“Non ti vedo convinta... ma che pensavi, che ero stato io?” ride ancora Tommaso. Se avesse riso meno si sarebbe accorto della colpevolezza negli occhi di Alice. Che invece si rinfranca, e ride pure lei.
Ridono e parlano, Alice e Tommaso. Parlano e ridono. Senza sapere bene perché.
14
Rumore di chiavi, una porta si apre. Dal pianerottolo fa il suo ingresso una camicia a maniche corte, tesa sopra una pancia. Seguono jeans blu scuro e un mocassino nero dopo l'altro, sovrastati da un paio di occhiali fumé. Una mano ha in spalla una borsa colorata a righe larghe, l'altra impugna due pacchetti.
“Ce l'hai fatta” vibrano dal soggiorno corde vocali poco femminili. “Dove sei andato a comprarle, alla Marlboro?”
Il Baffone non risponde. Lascia le chiavi della macchina sulla consolle, e li lancia alla voce uno dopo l'altro, a parabola, con calma. Il primo non fa rumore, il secondo genera un suono di pavimento. “Che bei modi eleganti” fa il catrame dall'altra stanza gattonandogli appresso. Lui posa la borsa su una sedia del disimpegno, e si sbottona la camicia senza parlare.
“Me l'ero scordata in macchina, eh? Ma tanto manco lì stavano, te l'avevo detto. Madonna, so' ore che non fumo”. Pietre focaie concitate, poi un tonfo di culo sul divano. “Si può sapere perché c'hai messo così tanto?”
“Perché non mi faccio i cazzi miei.”
Boccate di fumo dall'altra stanza. “Che hai combinato? Racconta a mamma.”
Il Baffone inarca un sopracciglio, memore di riferimenti materni precedenti. Poi sospira, si toglie la camicia e la appende accanto a un cappello di paglia.
“Mi ferma una ragazzina, dice che le hanno rubato tutto. Mi chiede il cellulare ma non sa chi chiamare, dice che non si ricorda i numeri.”
Scompare dalla porta per un attimo. Riappare con una maglietta piegata. “Ma che non ce l'hai i genitori?” Scuote la testa, “O magari non li chiama mai”. Se la infila. Sul torace la scritta PAPERSERA.
“Aspetta aspetta” dice la donna. “Chi era questa? 'Na ragazzina?”
Il Baffone si ferma al centro dell'ingresso. “Che non mi dovevo ferma'? Manchi solo tu che rompi i coglioni.”
“No no, e chi te li rompe, i coglioni? Ma com'era, sta ragazzina?”
“Vuoi sape' se era carina?” fa il Baffone, sfilandosi un mocassino con l'altro piede. “Era carina, era carina. Un po' secca...”. Si sfila anche l'altro e resta scalzo.
“Tutte anoressiche 'ste zoccolette”. Silenzio. “Allora?”
“Allora che? Parlo io o parli tu?”
“E parla, parla! Chi te interrompe più! Madonna mia come siamo sensibili.”
Lui esce dalla porta di prima, a piedi scalzi. Rumori imbronciati di ante aperte e chiuse. Riprende. “M'ha chiesto un passaggio, ho aperto lo sportello e quella se n'è andata. Mi sa che ho un po' alzato la voce... ma volevo torna' a casa”. Torna all'ingresso in ciabatte. “Allora scendo pure io e m'insulta, me tira le pietre.”
La donna nell'altra stanza ride. “Così t'impari a farmi sta' senza sigarette”. Il Baffone apre la cerniera lampo della borsa. “Avevo preso la borsa tua pe' farla rivesti'”. Prende l'asciugamano e inizia a stenderlo sul termosifone. “Tremava. L'ho seguita ma niente. S'è tuffata in acqua.”
“Il bagno di mezzanotte”, commenta cattiva la donna. “E perché non gli hai detto niente? Ci credo che scappava...”
“E sì, je facevo Vie' qua, nun te faccio gnente! Ormai s'era messa paura”.
“Un grande comunicatore. Come sempre.”
Il Baffone non coglie. “Gliela potevo lascia', la borsa. Come agli animali selvatici. Ma poi chi te sentiva, a te. A 'na ragazzina mezza nuda, per giunta”. Prende dalla borsa il pareo leopardato. “Poi che ce se copriva co' questo”. Lo guarda in trasparenza e lo stende sul filo davanti all'asciugamano. Entra finalmente in salone.
“Hai pensato bene”, dice Cleopatra sul divano con la sigaretta in bocca. È seria, non si gira neanche. Guarda una trasmissione di tronisti e veline.
“Porella, me faceva pena. Chissà se qualcuno je vòle bene”.
“E certo, ma mica aggràtis! Sarà 'na mignotta”.
“Una così non fa clienti.”
“E allora 'na tossica. So' tutte zoccole le ragazzine di oggi”. Tossisce.
“Io manco la guardavo. Stava pure a zinne de fòri! Cercavo de guarda' da tutte le parti meno che a lei, per non farla imbarazza'.”
“E che non lo so che sei un fregnone”. Tira un'altra boccata.
Scale semibuie, luce in cima. Una mano di uomo chiude l'acqua della doccia. La luce si spegne, ne resta una da basso. I toni di un touchscreen rompono il silenzio.
“Sì, sono io... No, non c'è nessuno. M'ha sentito arrivare... Non lo so, qualche finestra aperta, vedrete voi... sì ma c'è stata poco, penso... ha usato il bagno, sicuramente.”
Cocci di vetro ai piedi di un tavolino basso. “Ah! Ha rotto un vaso. Forse prima di trovare l'interruttore, la luce...”. Sposta i cocci col mocassino. “Al buio non ci vedeva”, aggiunge a discolparla, magnanimo.
Un rumore di chiavi chiude la porta massiccia. Un altro, di ghiaia calpestata, si allontana in direzione dell'ingresso che dà sulla strada. “Quindi che fate? V'aspetto?... Allora finisco il giro e ci vediamo qui. Fra un'oretta va bene?... Ok. A dopo.”
Sul sedile cade un cappello con visiera. Una portiera sbattuta compone sulla fiancata la scritta “METRONOTTE”. Il motore rombando scivola via dal brecciolino.
15
Colpi lontani di martello. Il sole rimbalza sulla sabbia. L'eco si accorcia, il rumore si fa più forte. Sono tre o quattro, sembrano nordafricani. Schiodano assi. Forse berberi, chi può dirlo.
Uno dei martelli s'interrompe. Una voce sorride in lingua straniera.
“Ahmed.”
Ahmed si ferma, alza la testa. “Quella ragazza”, indica la voce più in là, verso l'accesso alla spiaggia. Ai piedi della scala di legno, gambe nude portano una giovane, bendata in un fazzolettone bianco a mo' di velo islamico.
Tutti si girano. Nella voce non c'è sarcasmo: “Non somiglia a tua figlia?”
Le teste volgono su Ahmed, tranne quella di Ahmed, che resta su Alice. È vero che le somiglia. Circondata da occhi, la ragazza non abbassa i suoi, sfrontata più delle sue gambe. Si offenderà, Ahmed, per l'audacia del paragone? Se si fa il culo al sole è per la figlia. Ahmed è stanco. Si attende una sentenza.
“Mia figlia è meno sbadata, non uscirebbe solo con lo hijab in testa.”
Tutti ridono.
Poi tornano seri, a lavorare.