La conquista della posizione eretta, oltre a essere un pezzo struggente del Banco, è una gran cosa.
Quella di Scienze diceva che l'abbiamo scelta fra tante (ginocchioni, quattrozampe, a testa in giù, prona, supina, qualsiasi cosa voglia dire) per vedere se arrivano cazzi da lontano.
E infatti, eccoli lì.
Si frappongono fra me e la pizza al taglio. Che non è un gusto, il taglio è insapore ma non indolore, nessuno lo sceglierebbe; semmai una mossa, un gesto da arte marziale, ce lo vedrei un Bruce Lee a somministrare pizze a taglio ai suoi interlocutori. Magari qualche anno fa.
Ho parcheggiato, schivato il posteggiatore abusivo che vi alligna, presso la rivendita intendo, cioè la Taglieria di pizza. Ecco il perché di un campo visivo lungo metri, e dei secondi per formulare strategie. Ad avvistarti i cazzi da vicino ci fai poco. Da lontano invece hai tempo, e distanza. Decine di metri, centinaia se la giornata è limpida, e interi secondi, se non minuti. I secondi volano, i metri sfumano; ma il pensiero è più veloce. Nulla è più veloce del pensiero.
Il posteggiatore l’ho schivato parcheggiando lontano; ma non lui. Staziona presso la Taglieria, non c’è modo di evitarlo. Impossibile scavare tunnel, o avvalersi dell’intuizione colombiana in barba ai terrapiattisti, specie per un pigro come me. Non mi guarda. Non guardano mai, fino all'ultimo, quando è troppo tardi per scappare. Sanno calcolare la distanza tra due punti, problema di geometria analitica che impegna da secoli gli studenti. E anche tu, che leggi distratto; ti ci voglio vedere alla lavagna, pur con l'aiuto di un piano cartesiano, ad applicare il teorema di Pitagora, famoso costruttore di quadrati su cateti e ipotenuse, incalzato da Quella di Matematica.
Invece, lui. Guarda da un’altra parte, ma le rotelle processano. Un punto è lui, l'altro sei tu. Raggiunta la distanza minima, vince in un momento l’inerzia delle sue borse, e mi punta addosso gli occhioni.
Dai quali, dune sabbiose m’ipnotizzano. Spazi infiniti, predatori che predano, prede che fuggono. L’estinzione del più lento. Terre riarse, mosche che hanno pance rigonfie per giacigli. LA FAME, mentre in altri emisferi raffinati e oziosi si disserta di gusti taglienti poco saporiti.
L'amigdala suona allarmi di adrenalina, e cerca in memoria informazioni utili. La conquista della posizione eretta ha svincolato gli arti superiori dal peso del corpo, e ha permesso di impugnare cose. La mano corre al cellulare.
Alle volte il trucco aiuta. Una poggia l'apparecchio sulla tempia, l'altra lo indica. Le sopracciglia si inarcano a indicare che la faccenda è ineluttabile, e il rammarico di non poter valutare la proposta d'acquisto, senz'altro interessante.
Ma briciole di segnale hanno raggiunto la corteccia cerebrale, e vengono elaborate. La coscienza informa che gli sguardi si sono incrociati per un attimo. Il telefono è una scusa vigliacca occidentale. Non vorrò che gli occhioni mi guardino, mi soppesino, mi biasimino, mi ridicolizzino. Sciocco cervello, propaggine saccente, è proprio vero che allontani la felicità.
Che fare? Andare avanti? Addurre la vacuità dell’acquisto? Calzettoni di spugna in pieno agosto? Poi io uso solo calzini corti neri, di spugna d’inverno, invisibili d’estate. I fantasmini, da adolescente, li ho inventati io; tagliando calzini vecchi dentro le scarpe per non farli vedere, mostrando stile del vestire, prevenzione dei cattivi odori, scioltezza nel vivere. Quando i negozi hanno iniziato a venderne ho indugiato tra la fierezza di essere stato un precursore e il rammarico di non averli brevettati prima. Poi quei colori, bianco fino al ginocchio, e a fine polpaccio uno striscione rosso con striscette verdi parallele sopra e sotto. Bianco rosso e verde; forse pensa che siano i più appropriati nel buffo paese dove s'è ritrovato. Ma dall’amalgama risulta chiara l’incompatibilità cromatica con qualsiasi altro vestiario. Una volta ne ho comprati. Giacciono in fondo al secondo cassetto a sinistra, quello della biancheria. Mai messi, neanche a casa, i calzettoni lunghi mi frenano la circolazione nei polpaccioni. Un’altra ho proposto di accettare l’euro, ma tenersi la mala merce. L’ho fatto prudente, poiché i miei sensi di ragno prudevano per avvisarmi che potevo risultare antipatico. La fierezza di quegli occhi mi ha fulminato. Se n’è andato. A nulla è valso rincorrerlo. Anzi sì: a ciò che giace intonso nel secondo cassetto a sinistra.
Ragioni tutte ottime. Ma gli occhioni direbbero: non è merceologia, è Fame. Come puoi contrapporre le convenienze, le compatibilità, il Bel Vestire, al diritto di sfamare me e i miei figli, le mie mogli, le mie suocere innumerevoli e invadenti? Non vedi come staziono sotto il sole agostano, mentre tu per un pranzo spendi il mensile del mio paese? Come osi non prenderti i tuoi calzo di cazzini?
Un euro per dei calzini, poi, è pochissimo. Come fa? Che margine di guadagno, su quell’euro, per produttori, rivenditori e mafie che tengano lontani i concorrenti?
Povere mafie. Ne hanno anche loro di problemi.
Questo annus horribilis mi ha regalato una barba candida come il raziocinio di chi ha creato la Vita, nel senso semantico e micotico del termine; e con lei, saggezza nuova. E allora affermo che la posizione eretta è conquista temporanea. La migliore, e definitiva, è la distesa; ricoperti, se possibile, a evitare l’imbarazzo del decadimento, come certi gatti mummificati sugli asfalti. Sottoterra le posizioni erette sarebbero difficili da ricoprire.
Questo vado pensando, mentre riconquisto la posizione seduta e metto in moto verso il Cinese, presso il quale latitano postulanti e parcheggiatori, segno che le mafie locali hanno altre percentuali da spartirsi.