Se leggi queste righe, io
sono morto. Quanti scritti banali iniziano così?
Eppure niente come la morte
è banale quando d'altri e straordinaria quando è la tua. Sono morto
io, ma non da solo. Forse lo sei anche tu, e sto scrivendo invano.
Forse sono tutti morti. O disvivi, come si amava dire.
La prima volta che lo
sentii fu alle elementari, verso la fine, quando eravamo già bambini
grandi. Venne un signore elegante, panciuto, con la barba. Tirò giù
lo schermo, spense le luci e accese il proiettore.
Era una festa quando calava
lo schermo, sipario magnanimo su geometrie, calcoli e sillabazioni
alla lavagna. Il buio esentava dallo scrivere e dal leggere, forse
avremmo addirittura visto un film. Proprio così! L'eccitazione era
pari alla riconoscenza per quel signore. La storia si svolgeva in una
classe simile alla nostra. I bambini portavano grembiuli uguali per
maschi e femmine, e quando la maestra li chiamava si alzavano in
piedi prima di rispondere.
Pareva un film antico. Uno
dei bambini era chiamato a leggere, guardava il libro sul banco e
sorrideva. La maestra lo esortava a iniziare, lui si girava verso la
finestra. Lei lo richiamava, “Cosa aspetti? Su, comincia”, lui
tornava sulla pagina, che inquadrata in primo piano parlava di un
bambino che si prendeva cura del suo cane, lo accarezzava e gli
metteva acqua nella ciotola. Lui farfugliava le prime parole, poi
tornava a contemplare la finestra. Nessuno di noi sarebbe stato
sfacciato così. La maestra strillava “Filippo! Cosa aspetti? Vuoi
leggere o no?”. Lui allora prendeva il libro tra le mani e lo
sbatteva a terra, e scappava via. Non si esce dalla classe senza
permesso.
La proiezione si
interruppe. Il signore con la barba ci sorrise e disse: “Ora
guardate la stessa storia come l'ha vissuta Filippo.”
Filippo era chiamato dalla
maestra. Le sorrideva, e poi si alzava. Guardava il libro, ma era
strano. Le lettere erano spezzate, alcune rosse, altre sdoppiate
addirittura. Non poggiavano tutte su una riga come dovevamo fare noi
sul quaderno, impossibile che a non farlo fosse un libro. Come poteva
leggerle Filippo? Qualcosa si capiva, ma decifrare una parola faceva
perdere il senso. Sembrava uno scherzo, e Filippo si girava verso la
finestra sorridendo, come a dire Io non ci casco. Ma la maestra si
arrabbiava, anzi, come doveva dirsi, si addolorava; e allora capiva
che era seria, e lui quelle cose doveva leggerle davvero. Quindi
provava, sillaba dopo sillaba, senza capire niente; e allora non si
addolorava ma si arrabbiava proprio, di quello scherzo davanti ai
suoi compagni. Doveva giocarci a ricreazione, a mosca cieca, a
nascondino, ma qualcuno già rideva; e allora scappava.
Ora
a Filippo non si poteva dare torto. Il signore con la barba riaccese
la luce, riavvolse lo schermo, e ci chiese cosa avevamo provato.
Mentre gli altri bambini dicevano più o meno le cose che ho scritto,
io mi trattenevo dal guardare Patrizio, mio compagno di banco nonché
migliore amico. A pallone era più forte, ma non sapeva fare le
divisioni a due cifre. “Filippo è dislessico”
ci spiegava il signore, “perché non può leggere bene. Certi
bambini sono disgrafici e non scrivono bene, altri sono discalculi”.
Ecco cosa era Patrizio. E io chi ero? Discalcico?
Guardavo Patrizio quando
ero sicuro che non mi vedesse, né lui né i compagni, né tantomeno
la maestra o il signore con la barba, che sorrideva troppo per un
video triste così. Patrizio ascoltava come se la cosa non lo
riguardasse, ma negli anni a venire gli avrebbero perdonato le
divisioni a due cifre e un mucchio di altra roba, previa esibizione
di certificati che gli sarebbero valsi un voto di maturità classica
non dissimile dal mio. Poteva avvalersi di più tempo,
consultare libri e quaderni, mappe concettuali, usare calcolatrici
programmabili, addirittura computer; ma tanto consegnava sempre in
bianco. “Non in bianco; i numeri li scrivo, però mischiati,
incasinati, sempre più pieni di cancellature e di fatica” mi
spiegava sotto i tagli delle prime barbe con intuito combinatorio più
acuto del mio. La prof lo perdonava per sistema e gli impartiva
sufficienze pilatesche. Io invece Matematica l'ho avuta in quarto
ginnasio e in seconda liceo, e poiché a tempo debito avevo sorvolato
su equazioni di secondo grado e logaritmi, avevo dovuto sorbirmi
ripetizioni tutta l'estate.
Patrizio era il più
quotato della classe. Era forte a pallone, giocava nella squadra della scuola, le ragazze non gli mancavano e aveva una materia
complicata in meno a rallentarlo. La sua disgrazia
computazionale non gli stornava alcun successo. Alle elementari in
effetti non ne azzeccava una, e così era rimasto. La ruggine
accumulata negli anni lo aveva anche peggiorato. Ma, dopo il liceo,
con la mia laurea umanistica io campavo facendo supplenze in attesa
di una cattedra, disilluso, questo sì; mentre Patrizio nella
ditta del padre sperimentava strategie finanziarie sempre più
arrembanti. Mi aveva sempre stupito, Patrizio, per come i numeri che
vedeva sdoppiati, spezzati, sfalsati, gli acquistassero senso se
preceduti o seguiti dal simbolo dell'€uro. Forse con chiavi simili
anche le serrature di trigonometrie e algebre gli si sarebbero
dischiuse.
Ma chi sono io per dirlo?
Un disinformato, un dissennato, un disfattista.
I miei studi svogliati e inconsistenti certe cose non le hanno
approfondite. Quindi mi limito a riportare fatti.
Dis. Sai chi era, in
latino, Dis Pater? Dite, cioè Plutone, dio della ricchezza. E
infatti, mai prefisso causò tanta plutocrazia. L'economia si mosse,
pachidermica e inesorabile. Prosperarono scuole di recupero e
insegnanti di sostegno. Periti e operatori dei disturbi
dell'apprendimento autocertificavano nelle ASL il possesso dei
requisiti richiesti, della formazione e delle competenze in percorsi
diagnostici e riabilitativi acquisite sul campo. Domande di
invalidità si inoltravano presso le commissioni territoriali. Se
respinte si ricorreva ai tribunali competenti, o si richiedevano
Accertamenti Tecnici Preventivi Obbligatori. Se l'invalidità ancora
non era concessa (lottare per un'invalidità; ci pensi?) si avviavano
cause di lavoro. La legge si arrese, e per bilanciare le difficoltà
dell'allievo introdusse strumenti compensativi e misure dispensative,
fra cui l'esonero da compiti troppo difficili. Agli esami di
stato i candidati con certificato sostenevano prove differenziate,
coerenti col percorso svolto, finalizzate solo al rilascio
dell'attestazione. Nel diploma finale non veniva fatta menzione
delle modalità di svolgimento e della differenziazione delle prove.
A ogni dirigente scolastico
veniva raccomandato l'uso di misure atte a evitare la sofferenza del
percorso scolastico. Ma esiste successo senza sofferenze?
La strada era spianata per
chi, nonostante i disturbi alla ricezione, volesse sintonizzarsi su
percorsi scolastici prolungati. Alle lauree di primo livello
seguivano le specialistiche, fioccavano i dottorati di ricerca. Chi
non disponeva di certificati era chiamato a prove standard:
dimostrazioni chilometriche di teoremi, memorizzazioni
enciclopediche, e senza premi di gettoni d'oro interrompeva presto
gli studi. I titoli accademici finirono per certificare incompetenze
proprio nella materia di riferimento.
Dis Pater:
Dite, Plutone. Dio della ricchezza. Corrispettivo al greco Ade, re
dell'Oltretomba.
Nessuno più sapeva fare
niente. Si riunivano commissioni di esperti “qualificati” a
sviscerare problemi. Qualcuno ne avrebbe fatto reality-show, se ciò non
fosse stato politicamente scorretto.
Un auto passava col rosso.
L'agente, solerte,
fischiava.
L'auto accostava, si apriva
il finestrino.
“Buongiorno. Lei non ha
visto il rosso?”
“Forse l'ho visto ma
sono esentato, soffro di discromatopsia.”
“Cioè?”
“Non distinguo i
colori.”
“Vuole dire Daltonico.”
“No, voglio dire
discromatoptico. Daltonico è dis-criminatorio.”
“Sia come sia, in questo
caso deve esporre sul parabrezza l'apposito certificato.”
“No, poiché in quanto
dis-informato sono
esentato anche dall'esposizione di certificati.”
O ancora, i governi.
Dirette impietose esibivano le schermaglie di incompetenti patentati
e le loro votazioni a scrutinio segreto e a partecipanti assenti, i
loro monologhi accesi, le risse e i richiami all'ordine. Ma almeno a
questo si era abituati.
Nei tribunali penali e
civili potevano incriminarsi solo gli onesti, i disonesti
erano legittimati a delinquere. Il potere giudiziario si accaniva
sulle infrazioni stradali di miti padri di famiglia, sulle bollette
inevase delle vecchiette, sugli schiamazzi notturni di chi russava in
preda a riniti e sinusiti. Inutile chiedere clemenza a Vostro
disOnore.
La
rimozione di strumenti didattici dissuasivi dall'insuccesso, vecchi
ma formativi, quali lo Scappellotto, la Sospensione della Paghetta
Settimanale, il Coprifuoco alle Ventidue e Trenta nei fine settimana,
portò al disastro. Certificare il disabile
da abile, sostituire al credito il discredito,
premiare sull'educazione la diseducazione,
portare l'ordine al disordine,
rendere disservizi i
servizi, rese l'amore disamore.
Promuovere l'uguaglianza generò disuguaglianza;
mai cantonata fu tanto clamorosa. Inventare contrari e coniare
prefissi neolinguistici non aumentava le capacità speculative, ma le
riduceva. Non era umano, ma disumano.
I somari patentati – ora
sì – non affrontavano difficoltà, e quando erano interessati a
farlo se ne scoprivano incapaci. Se mi fossi allenato col pallone investendo ore a battimuro, di destro e di sinistro, qualche gol
l'avrei fatto anche a Patrizio. Oppure avrei scoperto che la cosa non
m'interessava, nozione impagabile per un pigro; e avrei investito più
tempo in giornaletti.
In ogni classe c'era uno
meno bravo in una specifica materia, che a suon di bocciature e
sufficienze stiracchiate conseguiva i risultati minimi. O magari negli stessi campi più avanti si rivelava un'autorità, e sfotteva i suoi
persecutori in linguacce iconiche.
Ora la gente si piazzava al
centrattacco di squadre in testa alla classifica proprio in virtù di
capacità realizzative scarse o nulle, e la vita – senza le sue
difficoltà – divertiva come un flipper senza buche. La distopia
dei leoni sdentati che inseguivano lentissime gazzelle chiamò a sé
la morte. La mia, che ho scritto; e la tua, che mai mi leggerai.