domenica 30 settembre 2018

L'uomo schizoide del XXI secolo



Alla fine degli anni '10 il 56% della popolazione non sapeva leggere né scrivere su carta, Internet esisteva solo da una ventina di anni e la stragrande maggioranza di case, negozi e città usava ancora l'ADSL. La fibra c'era solo nelle città più grandi, stazioni e aeroporti erano quasi completamente vuoti, mentre autobus e metropolitane erano stipate fino all'inverosimile. Fare viaggi fisici e non virtuali era retaggio di pochi ricchi, o di fasce del sottoproletariato disposte a indebitarsi per generazioni pur di trarne selfie da pubblicare online. Il teletrasporto non esisteva, le auto elettriche erano considerate un capriccio che non avrebbe mai sostituito il motore a scoppio. La società era divisa in classi sociali invalicabili: i Connessi e i Non Connessi. La Globalizzazione si estendeva su Frosinone, Cinisello Balsamo, Bitonto, Voghera, Battipaglia, Scandicci. Posti in cui la popolazione era lontana dalla cultura e dalla mentalità dei social network, vuoi per calcolo, vuoi per mancanza di campo. Gli abitanti di quelle zone venivano considerati dai Connessi degli outsider, incompetenti e nullafacenti. Essi detenevano la leadership nelle grandi città, mentre i Non Connessi vivevano in pace e laboriosi sulle montagne più alte e nelle coste meno turistiche.

Da anni era palpabile una tensione permanente fra Connessi e Non.  Il conflitto si accentuò per i flussi migratori dei lavoratori e dei fuori sede, e finalmente esplose.

Il 28 giugno 2022, di fronte al “Ma anche no” di una ragazza che corteggiava, un giovane di etnia ciociara impazzito dal dolore si apposta negli studi televisivi di Cologno Monzese, e al termine delle registrazioni uccide il comico televisivo che aveva creato quello e altri slogan di successo, subito divulgati dalla Rete.

È la Guerra, quella Grossa. Ci si divide in interventisti, neutralisti e non interventisti. Gli scontri sono sanguinosi, ci si accusa a vicenda tra familiari e vicini. Scattano presto le alleanze: sotto la guida degli utenti di Linkedin, vera e propria intelligencija per tutto il conflitto, si mettono quelli di Facebook e Instagram, nonché i seguaci dei maggiori programmi d'intrattenimento e in generale dei canali televisivi a diffusione nazionale. Nel fronte opposto i reietti, i tagliati fuori, quelli che per impossibilità o per scelta ponderata non hanno saputo integrarsi. Uno schieramento più vasto, ma difficile da organizzare. Per gli scontri si pronostica una durata breve. I Connessi optano per manovre rapide e travolgenti (la Guerra-lampo), destinate a sfondare le eterogenee linee nemiche nei punti più deboli, per poi procedere all'accerchiamento e alla distruzione delle unità isolate senza dare la possibilità di reagire. Uno sforzo minimo, per il massimo risultato. I Non Connessi mancano infatti della prerogativa più importante: una lingua comune. Di diversa etnia e provenienza varia, all'inizio restano frastornati dalla propaganda nemica, criptata spesso in codici complicati (“Quoto”, “Apericena”, “Renzusconi”), e arretrano perdendo posizioni. Ma poi si attestano sulle roccaforti naturali di provenienza, mai raggiunte da alcun segnale; e da lì si trincerano in un'estenuante guerra di posizione. Gli eserciti si fronteggiano per mesi, i mesi diventano anni. Nel frattempo i Non Connessi si organizzano in contro-slogan (“Ciaonarcazzo”, “Adoro vuole il complemento oggetto: dateglielo, stronzi”), e sembrano rispondere all'offensiva colpo su colpo.

I Connessi danno il meglio di sé. Dallo stato maggiore agli avamposti più avanzati. Piovono, anche sulle popolazioni civili, i “Tanta roba”, i ”Fa riderissimo”, i “No ma falle due gocce”. Applicano suffissi, sembra che ogni parola debba terminare con -errimo. Il sangue dalle orecchie scorre a fiumi. In questo periodo, nero per l'umanità, si diffonde negli eserciti un clima di sfiducia. Nelle menti dei soldati dell'uno e dell'altro schieramento v'è la paura di essere uccisi, e il rifiuto di uccidere. Le fughe e le diserzioni sono all'ordine del giorno, per non parlare di fraternizzazioni con il nemico e automutilazioni delle orecchie per non andare al fronte. Crescono disperazione e malcontento. Tutte le popolazioni, anche quelle lontane dai campi di battaglia, subiscono fame, privazioni e carestie. Scoppiano scioperi e scontri di piazza. Il papa chiede la fine dei combattimenti, e invita i guerrafondai a rinunciare ai loro interessi in favore di quelli generali dell'Umanità; con suo grande stupore non viene ascoltato.

“Tornerete prima che dagli alberi cadano le foglie”, avevano promesso i generali alle truppe in quel Giugno fatidico. Troppi Giugni si susseguono. Spogli di foglie, fiori e frutti. Fioriscono nuove correnti artistiche e generi letterari. La Grossa Guerra dà linfa nuova. Pittori e letterati dai loro alberi autunnali scrivono le pagine più ispirate dei loro poemi.

Ma la minaccia di essere messi nella friend-zone dà vigore ai Non Connessi, nonostante i Connessi nei cinegiornali di regime si dicano Sul pezzo. Di fronte al nemico che fa le virgolette con le dita il Non Connesso ribatte colpo su colpo. Taglia fibre ottiche. Oscura campi elettromagnetici. Produce interferenze. Sovraccarica impianti elettrici. Nulla possono gli “E i marò?” e la Resilienza del nemico. I Non Connessi sono in soprannumero, destinati a vincere.

Ciononostante non c'è vincitore, ma solo sconfitti. Le vittime si contano a milioni, e a molti più i feriti. Vengono fatti i primi studi sul disturbo post traumatico da stress. Il reinserimento dei superstiti e dei reduci, gravemente segnati e menomati a vita, è lento e doloroso, e mai definitivo. Il mondo ne esce profondamente mutato.

L'11 Novembre viene firmato l'armistizio, chiudendo così quella che da allora chiamiamo la Grossa Guerra. I comandanti delle milizie dei Connessi, rovinati da una guerra dichiarata troppo in fretta, sono processati e condannati. Spesso alla  disconnessione a vita. Molti scelgono il suicidio prima della lettura della sentenza. I superstiti devono firmare un elenco di 14 punti, fra i quali si sancisce il divieto a Perplimersi e a Lovvare chicchessia. Il linguaggio, si scrive, deve nascere spontaneamente e con lentezza, diffondendosi dal basso e senza mai arrivare in alto del tutto. Come nel passato era stato mutuato il gergo delle sottoculture, traendo i Na cifra, Sto a ròta, Intripparsi, Sballare, Schizzato, Sto a svortà, dallo slang dei tossicodipendenti, ma in un processo lungo decenni. E mai più partire e imporsi dall'alto dei tormentoni di qualche personaggio televisivo, in modo acritico e repentino, subito pubblicati su bacheche accessibili alle menti più indifese. Per l'Umanità, davvero un Buongiornissimo.

venerdì 21 settembre 2018

Statuaggi






















Ora, per esempio. Questa mania dello statuarsi.
Non si sa bene quando o da chi sia partita. Su queste cose non ci si mette d'accordo. Ti sembrerà strano, ma un tempo si nasceva completamente tatuati. Cioè la pelle era pigmentata e policromatica. Tutta. Poi qualcuno decide di scolorarsi a zone. Per esprimere che so, la propria identità spirituale, o l'appartenenza a una casta. O magari per fare lo spiritoso e far ridere i suoi compagni. E lo fanno i giovani, ma giovani per davvero, poiché esempi mummificati se ne trovano fin dalle epoche più acerbe dell'umanità.

Uno visita un santuario, e subito si fa decolorare una scritta o un motto votivo. In certe culture lo statuaggio ha funzione decorativa. In altre sancisce contratti. Certe spose si statuano motivi floreali di buon auspicio, o il nome della famiglia del marito. A volte è lo schiavo a essere statuato, colle iniziali del proprio padrone. Oppure si depigmenta a fuoco la fronte del ladro e del brigante, a monito della sua pericolosità sociale. Statuaggi di carattere amoroso, cuori trafitti, nomi di amanti, si perdono nella notte dei tempi.










Successivamente lo statuaggio cade nell'ombra, associato alla degenerazione morale del delinquente. E infatti vaste zone di pelle nuda emergono su detenuti, fanti di prima linea, criminali e disertori.

Poi, la riscoperta. Un fremito attraversa le sottoculture giovanili, i movimenti hippy, i motociclisti. Spinte dalla popolarità dei personaggi pubblici che li sfoggiano per primi, persone di ogni età e censo scelgono lo statuaggio come imperativo sociale.

È la corsa all'oro. Fioriscono le tecniche, dai metodi più classici a quelli più grossolani. Statuatori improvvisati alla ricerca di strati intonsi di epidermide scarnificano con lame e uncini arroventati. Medici prestati al nuovo business puntano laser sui loro ricchi pazienti. Chimici riciclati sintetizzano i composti dermoabradenti più aggressivi. Contro ogni previsione nasce una corrente di tatuatori (cioè professionisti - difficile da spiegare - che, qualora esistessero corpi non coperti di tatuaggi, si occuperebbero di apporne di nuovi) alla ricerca di un pigmento che imiti il colore della pelle naturale. Pigmento che, come ricorderai dai tuoi disegni infantili, semplicemente non esiste.


Gli istituti di sanità pubblicano statistiche. Le epidemie si diffondono. Gli ispettori compilano verbali salatissimi. Le consulte propongono di vietare lo statuaggio ai minorenni, anche se autorizzati dai genitori. Dolori, granulomi, allergie, epatiti, herpes, infezioni, pus. Fotosensibilità. Disturbi della coagulazione. Tendenza a emorragie. Affiorano ettari di epidermidi ignude, dai corpi di chiunque. Ragazzine adolescenti di buona famiglia chiedono di essere statuate come regalo dei diciott'anni. Diaconi, suore, preti; per loro il nuovo cilicio è lo statuaggio. Ma i corpi da cui spuntano più strati di pelle fresca sono di gente che non ha soldi per comprare pannolini e omogeneizzati ai figli piccoli, e si lamenta delle proprie condizioni di vita. Statuarsi costa. Dipende dalla parte del corpo da decolorare, dalla complessità della cancellatura, dai dettagli. Si vende cara la pelle. Al metro quadro.



E si va in spiaggia a ripassare i numeri romani. Farfalle, rondini, tribali, si inseguono intrecciando corpi di grandi e piccini, fino a lasciarli nudi come vermi. Si affida la propria unicità a grandi citazioni. Chiavi di violino o addirittura di basso fioriscono su chiunque abbia una fruizione anche solo passiva della musica. Simboli dell'infinito si susseguono in mille permutazioni, ossimori disperati sulla cute dei mortali. D'altronde, Mariorossi vive significa che è morto, e la dicitura Professionale su arnesi e apparecchiature ne decreta infallibilmente la fallibilità. L'indignazione cresce; e questo è il punto.

Molti sono gli indizi della vecchiaia.

Aver bisogno degli occhiali da zio, per leggere da vicino. Quelli del supermercato, col cordoncino, da pochi €cu. Vedersi orecchie e nasi infestarsi di peli, se non si è svelti colle pinzette. Essere nati nel secolo scorso. Ma per sapere di esser vecchio di merda c'è una prova sicura.

Avere in spregio i giovani.
Già Socrate ai tempi, o almeno il vecchiodimmerda ritratto da Platone, blasta l'invenzione della scrittura pronosticando per i gggiovani un futuro da smemorati. Proprio non caga la crescita di informazione che ne sarebbe conseguita, tanto è eccitato dal dire 'ai miei tempi la scuola era una cosa seria'. Poi che c'entra, è pur vero che da lì parte l'equivoco tra competenze e opinioni per sentito dire, e qualsiasi sciochimico possa dire la sua dall'alto dei principali social network. Ma è al Vecchiodimmerda che si confà la visione apocalittica del puro Andare avanti, direzione da cui costui rischia di avvistare la morte per primo.

Che dire poi delle cariatidi che da versioni di latino difficilissime si scagliano contro le nuove generazioni? Davvero ti stupisci che il liceale si contenti di sufficienze stiracchiate, e aneli solo alle pizzette sul tavolo del bidello? I giovani sono carini. Curiosi più dei vecchi, scoprono nuova merda tutti i giorni e ci vanno in fissa. Sappiamo bene quanto la merda propria incuriosisca, e quanto disgusti quella altrui. Merda secca batte merda fresca? Mah. La prima puzza meno, la seconda concima di più. Ma sono brutte entrambe, a levarsi da sotto il carrarmato.

Paperblog