Mangiare s'è mangiato, bevuto s'è bevuto, di fare l'amore manco a parlarne. In quella domenica piovosa di dopopranzi, l'unica era mettersi a leggere un giornaletto. Ma non uno di quelli che aveva letto diecimila volte. Pur piovendo, decise di andarsene a comprare uno nuovo.
Sulla porta si fermò. Fece a sua moglie: “Oh. Io esco per l'appunto a comprarmi un giornaletto nuovo. Serve niente?”
“No”, disse lei. E poi: “Visto che piove, porta fuori il geranio”.
'Geranio. Maledizione', pensò lui, 'Ha rovinato tutto'. Ora per tutto il tempo avrebbe avuto in mente come ultima parola geranio.
Ma che vuol dire. Cosa vuole, da dove viene. Senti che parola: ge-ra-ni-o. Suonava detta per la prima volta nell'universo. Le parole lo fanno spesso. Più le scandisci nella testa, più suonano assurde e incomprensibili. Per un pezzo. Poi, quando si stancano, perdono il loro potere per sempre, e se riprovi a sillabare quella parola, la stessa che prima ti paralizzava i ragionamenti, la trovi scarica. Ma intanto oggi andava così. In balia di un geranio.
Da ragazzo un'estate non aveva chiuso occhio per un canditi pronunciato in tenda da qualcuno come ultima parola. Canditi. Candy la crocerossina animata, Candy la lavatrice, Mariomagnotta, mignotte candide, micosi infettive, funghi, boleti, amanite muscarie, ovuli buoni e cattivi. Lavagne ingessate da secchioni dell'immondizia. Puzze e rumori che non fanno dormire. Bersagli di settimane enigmistiche. Canditi scanditi, cantati, andati, anditi, diti. Echi che gli spolpavano la scatola cranica dall'interno. Tutti in una sola testa. Con questa cagnara, chi dorme più? Poi si era addormentato, e al mattino canditi era tornata parola morta, foriera solo di carie e pinguedini (pinguedini – vivono solo al Polo Sud? controllare). E quando leggeva un libro? Controllava subito la prima e l'ultima parola. Le aveva trovate coincidenti una volta sola. NelLa collina dei conigli (o sulLa collina dei conigli?). La parola era Primule (primule! senti quest'altra, da sballarci). La coincidenza, ipnotica tanto da occultare trame, contenuti e stile. Stupefacente il rischio corso dall'autore per indugiare a quell'innocente marachella (marachella, sigh).
L'Ultima Parola, ne converrai, ha una responsabilità enorme. Insostenibile. È impossibile farla franca e dormire, se l'ultima parola detta è appena desueta o poco pertinente colla condizione di addormentarsi. L'ideale sarebbe un avverbio, un pronome impersonale, se non un sensatissimo buonanotte. Ma geranio? È subito insonnia. Per non parlare dell'ultima parola detta da una ex, nella litigata definitiva. Spera di essere emotivamente preso e inafferrarla, rinviando l'elaborazione del lutto di mesi per un chiavidicasa, o peggio un mammone.
Per tutta la passeggiata rischiava di avere nella testa geranio, a risuonargli. Manco a dire che poteva provare a dirne altre. Salutare il portiere, chiacchierare con il barista, chiedere l'ora alla fermata dell'autobus. Rischiava ultime parole anche peggiori. E se al ritorno sua moglie fosse morta? L'ultima parola della sua vita sarebbe stata geranio. Vale la pena vivere una vita intera per finire a dire un'ultima parola così? Esiste una parola che giustifichi una vita? Non una, in tutto il dizionario. Geranio. L'ultima parola mai pronunciata da una persona, e in particolare da sua moglie. Sentì spuntare una lacrima. 'Perché-e-e?!' si ululava nella mente, simulando l'eco della vignetta in cui era disegnato tanto male. Gerani del cazzo. E la sua, di parola ultimissima, quale sarebbe stata? 'Eredità' (Ë-řę-D-tÀh!)? 'Bicchieredacqua' (H2O's glass)? 'Soffocando'?
Di certo ne avrebbe avuta una. Perché non zero, o due? Capì che questa nuova domanda poteva farlo impazzire. Provò a distrarsi col giornaletto che stava per comprare. Chissà quale, con pubblicizzato in quarta di copertina chissà cosa. Ma non ci cascò. Se attraversando la strada un'automobile gli avesse esploso i sovrappensieri, l'ultima parola a rimbombargli nei cranii sarebbe stata lei: geranio. Che sciocchezza madornale. Al suo capezzale nessuno avrebbe immaginato che la causa del suo stato vegetativo, della sua morte innaturale, sarebbe stata un geranio. Nessun patologo ne avrebbe scritto su nessun referto. Nessun biografo su nessuna enciclopedia. Nessuna generazione sarebbe stata ammonita a sufficienza.
Guàrdati dunque dal geranio, incauto lettore. Dalle propaggini letali, dalle fronde ammaliatrici. Quanto a lui, sapeva che sarebbe finita così. I gerani hanno bisogno di star fuori a lungo. Aveva concesso a sua moglie di tenerne uno dietro promessa che se ne sarebbe occupata lei. Pure, eccolo qui. A scegliere per forza l'ascensore e le claustrofobie conseguenti. Provaci tu a trascinare al guinzaglio un vaso per le scale, con l'attrito che ne consegue. Goditi la fragilità delle terrecotte, alla prova del gradino. O la lascivia delle plastiche, così inclini a finire nel Chissadove per un abbrivio mal dato. Sfila tu sotto le piogge, di cui i gerani sono avidi. Striscia di portico in portico, di pensilina in pensilina, nel tentativo di ripararti. Lui fu fortunato. Preso il giornaletto nuovo trovò una panchina sotto un platano, il cui fogliame fitto non permetteva alle acque di filtrare. Lasciato il mostro fuori dal fittame, mentre le sue foglie iniziavano a sbronzarsi, tirò fuori dal permeabile le cartapeste pagine per iniziare finalmente a leggere. Tutt'intorno altri gerani, e i loro possessori. Ce ne sono sempre. Qualche marito, consegnato come lui. Per lo più donne. Probabili sodali di sua moglie. Ciascuna con a spasso il suo.
Le donne spassose di geranii sono tutte sceme. Tutte a vantarsi del proprio, il più perfetto.
“Il mio con un litro fa tutta la settimana”.
“Il mio Pelavgonium è intelligentissimo: quando inizia a pioveve ovienta subito la covolla vevso la sua finestva pevsonale per fav capive che vuole uscive”.
“Devi vedere com'è carino quando fa la guardia! E la fa bene, poi! Da quando l'abbiamo preso non si vede più una zanzara”.
Tutti quei gerani. Di taglia grossa, di taglia piccola. Certe volte solo bulbi o talee. Alcuni col cappottino di lana colorata. Gli davano il voltastomaco. Perché allevarli, nutrirli, educarli? Perché non poter entrare all'interno, qualora non ammessa la presenza di geranii? Per cosa avere pazienza, raccogliere deiezioni, essere autorevoli e non autoritari? Nel possessore di gerani l'incapacità di rapporti paritari cogli uguali era evidente. Non avrebbe mai immaginato di avere per tante ore dei gerani nel cervello. Si chiese per quanto si potesse sopravvivere con nella testa un geranio. Che parola assurda, ge-ra-nio. Che incubo mostruoso. Si chiese se, nelle Storie delle Umanità, altri vi avessero pensato altrettanto. Chissà quali parole la gente aveva in testa in quel momento. Quelle donne, ad esempio. A che parole pensavano? Quanto intensamente? Troppo di sicuro, per la sua sopportazione. Pure fossero state ammirevoli faminelmondo, paridiritti, curedimorbiletali. Sotto una pioggia radioattiva non c'è asciutto. Non si sopravvive. Occorre sapere. Inconcepibile dormire, con possibilità mostruose sotto il letto. Bisogna sporgersi e guardare. Doveva chiedere. Tanto forte era l'impulso che dimenticò il rischio di sostituirsi il geranio colle parole ruminate certamente da quelle donne.
“Scusi lei, col guinzaglio retrattile. Che parola ha adesso in testa?”
“Lucidalabbra”.
“Invece lei?”
“Lexotan”.
“E tu, ragazzina dall'apparecchio ai denti?”
“Liposuzione”.
“Quel portatore maschio di gerani in canottiera?”
“Rossettotatuatosulcollodevoavere”.
“Il signore colla barba e il panciotto?”
"ConcettodimetaforaneitrattatistidelBaroccoitaliano".
E ancora piastrapercapelli, nascondigliperladroga, cornalmarito, brrruxismo, unghiedarifare. Estetica, sesso, droghe. Pochissimo rock'n'roll. Niente biplani inutili, stolide cerbottane, tute, pisolini, noncalpestarerighemattonelle, alpinismi, dentifrici. Parole vacue, fuorvianti e stupide, le sue. 'Guarigione', aveva in testa un'altra. Puro buon senso. La gente sembrava furba, molto più furba di lui. Provò ancora.
“La ragazza bellina dal sorriso fisso?”
“Niente”.
“Come, 'niente'? Intendi niente come parola o”, senza sperarci più di tanto, “proprio niente?”
“Proprio niente. Perché?”
“Vieni con me.”
2.
Lasciarono i gerani pazzi di gioia alle loro libagioni e si spostarono sotto un altro platano, stavolta senza panchina. Guidava lui – a questo punto dico chi, tu che badi sempre alle etichette: Fransisco, colla esse. Vuoi per un errore all'anagrafe, vuoi per una distrazione tutta tua. 'Piacere'? Non per lui, che manco ha idea di chi tu sia, pur avendo sempre in testa mille cose. Lei invece, nessuna. Semplicemente lo seguiva e basta. Avrebbe seguito chiunque le avesse proposto di farlo con naturalezza. Eppure nessun malintenzionato ne aveva mai abusato, forse per timore del suo sorriso fisso e imperturbabile.
“Davvero prima non avevi in testa niente?”
“No, mi pare di no”.
“E adesso? E in genere?”
“Adesso ci sono le sue domande. In generale possono esserci altri fatti”.
“Ma in assenza di fatti o di domande? Non ti capita mai di fissarti su – tipo che so, pensieri specifici? O magari” - esitando - “ parole?”
“Quali parole?”
“Quelle che senti dire. Magari per il tono, o per come ti suonano in un dato momento”.
Si sentiva sempre più scemo. Era da tempo che non provava più a raccontare a qualcuno i suoi affannamenti. L'ultima volta aveva dodici anni. Aveva iniziato a spiegarli a uno zio che si lamentava del volume alto del televisore, che gli impediva di leggere il suo quotidiano sportivo. “Zio. Ma ti capita mai che a disturbarti siano le parole che hai in testa?” “Quali parole?” “Parole... tipo parole che suonano strane”. “Suonano strane a chi?” “Eh, a te, certe volte”. “Parole... extraterrestri?”
Prima che lo zio potesse continuare, Fransisco era scappato.
“Penso di no,” rispose la ragazza - quella bellina, non distrarti come tuo solito. “Niente parole. Ma forse non capisco cosa intende. Perché le interessa come mi suonano le parole?”
“Perché le mie mi rimbambiscono. Perché ho qualcosa in mente sempre”.
“Bè, mi sembra una bella cosa” disse lei, nei cui ricordi ancora riecheggiava l'ammonimento dei corpi docenti. 'Carina ma stupidina', le dicevano. Proprio come aveva pensato prima Fransisco.
“Non lo è”, fece lui scuotendo il capo. “Non è bello per niente. È solo un fardello di rottami, taglienti e arrugginiti. E io non ho fatto l'antitetanica, e non ho mai il numero di uno svuotacantine da chiamare, quando serve. Certe volte mi piacerebbe essere come te”.
'Come te' come? Bellino? Stupidino? Fin da piccolo Fransisco si era sempre sentito piuttosto intelligente, con tutte le parolone e i pensierini che aveva sempre in testa.
“Ma – io penso che siamo tutti qui colla nostra vita, che è come le altre, o magari più bella o più brutta, è inutile che ci mettiamo a invidiare le altre vite, invece godiamoci la nostra, che è così invidiabile da tanti altri pure lei”.
Disse questo e tacque, stupita dal fumetto che le era uscito dalla bocca. Non aveva mai pronunciato tante parole tutte insieme. Neanche a un'interrogazione. Non aveva mai elaborato un pensiero così complesso, soprattutto. Stupita, o stupida? O era veramente stupida, stupida al punto da farsi bruttina all'istante, o era un genio. Fransisco pendeva dalle sue labbra. Veramente riusciva a non avere in testa niente? La sua aveva l'aria di essere saggezza antica. Di quando si mettevano al mondo mucchi di figli anche sotto i bombardamenti, senza trastullarsi colle proprie fobie. Esisteva ancora la speranza? Sul serio c'erano persone così? Del resto, non poteva essere altrimenti. Se i pensieri fossero durati a tutti quanto duravano a lui, la vita sarebbe stata solo un film mentale. Fuori dai suoi palinsesti (brr, che parola da brividi 'fuori', detta non a voce alta per fortuna, quindi non valeva) nessuno avrebbe fatto mai nulla. E invece! Questo capitava solo a lui. I pensieri, i pensieri. Fransisco ricordava le occasioni perse, i voti rifiutati, quelli presi (fuori dal seminario, per fortuna), le sciocchezze fatte, per aver coltivato pensieri. Essere un uomo non d'azione ma di pensiero, di un tipo di pensiero più che altro malato, lo aveva portato a nonvivere. Ai pensieri attecchiscono i principali vibrioni, le malattie più letali, i jingle più pubblicitari. È il pensiero che porta a scegliere un prodotto, lavorare per acquistarlo, indebitarsi a vita. Schiere di giovani uomini si facevano ammazzare sui campi di battaglia per un
pensiero. Masse di giovani donne si facevano stuprare dai loro assassini. Orde di stupidi veri, ubriacati dall'enfasi degli oratori. Ce lo vedi tu un branco di antilopi a rompersi le corna su una foresta pietrificata solo perché convinti dalla tua arringa (dico un'arringa tua)? L'atto dettato dal primo pensiero: giocarsi il paradiso per una mela. I coniglietti, i cerbiattini, ci sorridevano dall'alto di cieli disneyani. Era davvero da barattare, quel sorriso disarmato, per sapere quante cavolate si possono commettere? Si può essere più scemi di così?
Questa donna, invece. Questa donna soavissima era un dono dal cielo. La sua bellezza, angelicabile. Lei rosa fresca aulentissima; lui garzoncello scherzoso, soggiogato dai supermarket. Il dialogo tra il signore innamorato e la pastorella aveva rivelato possibilità stilnovistiche. L'assenza di pensiero, finalmente. Da sempre le mamme ammoniscono il pargolo aggravato di pensieri indigesti dal pericolo della congestione. D'improvviso volle riprodursi. Doveva fecondare quella donna. Dai due sarebbe nato un nuovo seme. Di pochi pensieri, pochissimi; ma chiari. Pertinenti. Oppure no? Troppi pensieri, ma impertinenti e stupidi? Cosa avrebbe ripreso dal padre, e cosa dalla madre? Forse prima che fosse troppo tardi era meglio ucciderla.
Fu allora che Fransisco si ricordò di lei, della futura madre dei suoi figli impossibili. Dov'era finita? Bisognava ritrovarla? Ecco che tornavano le possibilità, e con loro i problemi. Probabilmente se n'era andata, qual piuma al vento. Mossa dalle semplici relazioni di causa-effetto che attirano l'elettrone verso il protone, il grave al suolo, il ferro alla calamita. Spinta a volar via da chiaro-veggenze, al vedere lui chiuso in riflessioni tanto scure. Decise di ritirarsi anche Fransisco. Il problema era troppo grande per trovare soluzioni in giornata. Voleva riprendere l'arbusto e ritornarlo a casa.
Al suo ritorno il geranio era sparito. Così: puff. Non dalla sua testa, bensì dalla piazzola di ristoro in cui lo aveva lasciato. Non c'era più. Forse uno smottamento acquitrinoso, o una botta di vita. Fransisco si gettò a capofitto nei pendii giù da basso. Ne trovò i resti in una partita a pallone di certi monelli. Vi saltò a braccia larghe rimediando un'ammonizione (ma anche due goal). Ciò che conta è che ne recuperò le spoglie, che ricompose poi in un vaso nuovo. Lacero e contuso, ferito nell'intimo dalle pieghe della giornata, volse verso casa. Quando aprì la porta sua moglie lo accolse con grandi esclamazioni.
“Ma dove sei stato, con quest'acqua. Sarai zuppo. Levati le scarpe o mettiti le pattine, che ho appena pulito. Ti avevo chiesto una cosa, una sola. Mai una volta che mi dia una mano in casa”.
“Come, 'mai una volta'?! Se la giornata, il mio umore, la mia salute mentale e fisica, l'intera mia esistenza è stata condizionata dalle vessazioni e dai soprusi del tuo geranio!”
“Ma quale geranio. Il geranio inesiste, se non in certe teste bacate e tutte tue. Ti avevo chiesto di uscire quel vaso, di uscirlo perfavore in terrazzo. Ma te ne sei andato, come sempre borbottando”.
'Potrebbe essere. Potrebbe essere', pensò Fransisco. Che però voleva sempre aver ragione lui. Forse troppa. Troppa ragione, e in modi e momenti inopportuni.
“Ma me l'hai detto tu, di portar fuori il geranio!”, omettendo la parte in cui il fuori raggiungeva estensioni velleitarie ed eccessive, e l'arbusto veniva strappato al regno vegetale e ficcato nelle vesti di puro vocabolo.
“Sèee. Inutile ribattere. Tanto sei sempre tu, a voler avere l'ultima parola”.