venerdì 18 settembre 2015

La padronanza



La prima volta che ne vidi veramente uno eravamo in spiaggia.
Era seduto sul molo. Aveva qualcosa in bocca, che colava saliva. Dalla pelliccia grondava acqua salata.
Era lì, perfettamente a suo agio tra la gente, che in effetti si faceva gli affari suoi. Io pensai, ed è l'ultima cosa che ricordo al riguardo, 'Ma se ci fossi io seduto lì, col mio panino, unico esemplare della mia specie per chilometri e chilometri, circondato solo da quei mostri bavosi; sarei capace di essere tranquillo così?'
La tranquillità paga. Sempre. Non vedo altre cause, per la loro proliferazione. È incredibile. Ora sono solo, e sto in mezzo ai mostri tutto il tempo. Prima di incontrare un mio simile passano ore e ore. Certi giorni non ne incontro affatto. Ed è un incubo.
I Mostri, colla loro noncuranza, si sono diffusi. Moltiplicati. Hanno prevalso. Erano carini. L'ultima moda. Parlarne male in società? Impossibile. Ci si trovava subito emarginati. La gente era capace di urlarti contro. Eri uno schifoso, insensibile, crudele, roba da telegiornale e da emarginazione sociale. “Sono così carini!”. “Il mio è intelligentissimo, capisce tutto quello che gli dico!”. Talmente intelligentissimo da farti le scarpe, testa di cazzo sparita chissà dove. Oh, bieco cinfallico. Ora mi trovo a rimpiangere perfino te.
Mi manchi, quando l'alternativa è stare in silenzio per ore e ore. Anche la tua stupidità mi allevierebbe la solitudine. Passo le mie giornate rinchiuso nei loro covi, ad assistere ai loro passatempi schifosi. Giocano. Non so a cosa. Si inseguono, si raggiungono, si saltano addosso e si urlano contro. Penseresti a un pericolo imminente; macché. Dopo poco capisci che per loro quella pantomima è il massimo della gioia. Fanno camminate lunghissime, questo lo vedi quando decidono di portarti con loro. Allora, qualsiasi cosa tu stessi facendo in precedenza, la molli in fretta e inizi a smaniare. C'è il caso che si passi davanti a un Internet Point, uno rarissimo, di quelli che, non si sa come, ancora funzionano. Potresti riuscire a controllarti la email. Devi fare in fretta, perché anche i più tolleranti dopo qualche minuto si spazientiscono e ti strattonano fuori. E se pure ci riesci, la casella di posta è vuota ogni volta, perché la gente è sempre di meno, e quella che c'è non è stata altrettanto fortunata da avere il tempo e il luogo per digitare user name e password.
Io non ricordo, non ricordo. L'ultima cosa che ho ben chiara è quella spiaggia. Poi più niente. Le uscite sono umilianti, oltre ogni dire. Quello che facevi prima di uscire non conta. Decidono all'improvviso, in un attimo si è fuori. Devi fare i tuoi escrementi in fretta e dove capita, e guardare i loro nasi infilartisi nella merda, e le loro lingue assaggiartela; e se provi a cagare più defilato, capacissimi di riportarti a casa infuriati, quegli obbrobri. Si vergognano: cagare defilato non sta bene. Girano con uno strumento apposito, una specie di spatola di legno. 'Spargimerda', lo chiamano. Serve a che la merda spalmata possa essere calpestata, annusata e leccata da più mostri possibile. Opporre resistenza non conviene. Non sai quando sarà la prossima volta che potrai sperare di incontrare un altro essere umano.
O essere umana? Perché gli impulsi sessuali si fanno insopportabili. Squallido a dirsi, ma l'ultima volta che ho incontrato una donna ci siamo subito saltati addosso. È stato un attimo. Ci hanno separato immediatamente. Io sono stato morso, e pure lei. Non vogliono che ci riproduciamo, quei bastardi. Hanno paura di tornare in minoranza. Ne hanno il permesso solo i più fortunati. E fortunati per modo di dire. Quando i Mostri decidono di concedertene il privilegio, è solo per sperimentare nuovi incroci razziali. Una volta durante un'uscita ho incontrato un ragazzino tedesco. Avrà avuto quindici anni, basso e obeso, completamente nudo. Sono rari, quelli di noi che hanno ancora vestiti. Io sono fortunato: sul naso ho addirittura un residuo di occhiali. Era stato messo, mi ha detto, davanti a una cinese di sessant'anni. Alta e secca da fare paura, coi capelli bianchi e i peli delle ascelle dello stesso colore. Nessuno dei due aveva gran voglia di iniziare a darsi da fare. Poi lui, più avido di prime esperienze o almeno immagino, aveva tentato l'approccio. Nulla da fare. Lei gli si era rivoltata contro graffiandolo in faccia, con gran biasimo dei Mostri astanti che laidi assistevano.
Questo mi ha raccontato, in quei pochi minuti che ci hanno concesso. In uno scambio linguistico che avrebbe affascinato qualsiasi glottologo dei tempi andati. Io, del tedesco, non ho mai capito una parola. So solo che ha le declinazioni come il latino. Statura e peso me li ha mostrati a gesti. Il bianco era quello della lurida camicia che indosso tutti i giorni. E i suoi indici che si stiravano gli occhi non lasciavano dubbi: quell'amazzone virtuosa era orientale. Quanto all'età, l'ho dedotta dal gesto con cui quel ragazzetto roseo e paffutello si indicava le mammelle colle mani, abbassandole poi fino all'ombelico. Quelle di lui sì, erano floride.
A questo punto sarai curioso dei miei altri trascorsi sessuali. Ben poca roba, ahimè. Il più delle volte incontro vecchie o bambine, e non mi sembra il caso. L'ultima volta che ho concluso qualcosa è stata con una signora sui cinquant'anni, lasciata sciolta nel parco, come me. Una di quelle signore un tempo perbene, che avresti visto uscire dalla messa la domenica mattina. Chissà dove sono adesso suo marito o i suoi figli. La signora perbene mi guarda. Un'occhiata allusiva, ti assicuro. Io, da lungo digiuno, non disdegno. Ci avvinghiamo. Non ci separano, forse per la probabile menopausa della mia concubina. Li fanno bene i loro calcoli, quei bastardi. L'ho rincontrata, non è mai stata incinta. Forse sono io che sono sterile. Chissà.

Certi di noi hanno funzioni assegnate. Ci usano per assistere i Mostri più anziani. Uno schifo che non ti dico, se pensi che anche da giovani hanno i culi incrostati di merda, e le loro convenzioni sociali vogliono che incontrandosi si annusino e si lecchino sempre lì. Imbocchiamo le loro fauci sdentate, e quella è l'unica cosa buona: non c'è pericolo. Un'altra cosa per cui ci reputano validi è lanciargli oggetti. Li afferrano al volo, riportandoli indietro e pretendendo che gli si rilancino ancora, e ancora. Sembra si divertano. Potrebbero lanciarseli tra loro, penseresti. Ma i loro arti non sono appropriati. Ah, caro vecchio pollice opponibile! Parevi garanzia di ogni futuro successo; e invece. La vera tortura è la costrizione di grattarli. Non ne possono fare a meno. Ti abitui presto ai crampi, e allora cambi mano. Ti danno da mangiare (meglio sorvolare sulle condizioni igieniche, se pensi che i loro arti più prensili sono fauci ributtanti), ma pretendono che gliene passi continuamente bocconi. Una delle tante stranezze della loro etichetta. Ecco che la tua porzione, apparentemente abbondante, si riduce di almeno due terzi. L'unica salvezza è quando escono. Sulle prime, quando capisci che non ti porteranno con loro, ti rattristi. Dovrai rimandare la speranza di incontrare tuoi simili. In più, assisti a scene apparentemente incomprensibili. I Mostri non hanno la concezione del tempo. Quando si separano da te, il commiato è straziante, come se non dovessero rivederti mai più. Tu ci speri, e invece eccoli di ritorno dopo neanche venti minuti.
È tutto inquietante. Ti lasciano stare solo quando dormono. Allora tu ti affacci alle finestre abbandonate, e urli alla notte la tua disperazione. C'è chi chiama i nomi dei propri cari dispersi. Chi piange. Chi bestemmia. Chi suona la chitarra elettrica. Il giorno dopo tra i tuoi padroni Mostruosi e i loro vicini è una gran cagnara, per il chiasso fatto nottetempo. Non di rado c'è chi dissemina hamburger avvelenati nei i luoghi dove ci portano in ricreazione. Io stesso ho più volte scartato una fritturina di pesce appetitosa, ma piena di puntine da disegno. Come se non ce ne accorgessimo per tempo, poveri stupidi. Altre volte pubblicano sui loro social network decine di nostre foto, scrivendo quanto siamo carini. Peccato che le nostre facce, le cui emozioni non sanno leggere affatto, tradiscano noia, disappunto o addirittura orrore. I più eccentrici alla loro morte ci lasciano tutti i loro averi, o li donano alle associazioni di fanatici che pretendono di curare i nostri diritti, che invece ignorano. Grande è allora il disappunto dei congiunti sopravvissuti.
Ci usano per attaccare discorso colle prede dei loro amplessi. “Che carino, il suo! È un cucciolo? Quanti anni ha?”. E anche questa degli anni è bella. Hanno una vita media decisamente inferiore alla nostra, e alla loro morte ci abbandonano del tutto al nostro destino. I più fortunati riescono a scappare, ma al di fuori del consorzio Mostruoso se rintracciati rischiano la soppressione. Più spesso accade di venire tramandati a parenti per i quali sei solo un fastidio, e te ne rendi conto immediatamente dalle loro facce scocciate. Hai fatto tanto per abituarti a un legame, e ora ti ritrovi in balia di estranei. Buona fortuna per i tuoi pasti, e per ogni altra esigenza primaria.
Per le secondarie, incrocia le dita. Le influenze te le tieni. Malattie più serie devi sperare di non prendertele. Te l'immagini, i loro “dottori”, a tastarti con quei loro arti inetti per cercare di capire cos'hai? Hai idea di dove non sia arrivata, la loro “Scienza medica”?
Per loro, tutto si riduce a leccarsi le ferite. Con quelle loro lingue spesse e ruvide. Magari a loro fa pure bene, che so io, ci avranno su degli anticorpi. Ma te la vedi la tua cataratta, a guarire per le loro slinguazzate poderose? O le tue emorroidi? O una cirrosi epatica, un colpo della strega, un – brr – varicocele, una si(gh)filide?

Qualcosa non va. Un essere vivente non dovrebbe mai possederne un altro. Il rapporto non è paritario. L'ignoranza fulmina. Molti dei nostri padroni cercano di intavolare con noi un rapporto affettivo perché incapaci di stabilirne coi loro pari. Si stupirebbero molto di quanto siano inadeguati, se solo avessero facoltà di intenderci. C'è qualcosa che noi abbiamo, di cui loro non hanno idea. Una coscienza. Notiamo tutto quello che succede. Ce ne chiediamo il perché. Non capirlo ci causa sofferenze. Loro invece soffrono delle cose o ne gioiscono, e tutto per loro finisce lì. Che beatitudine.
Ma siamo noi, ad aver iniziato. Abbiamo cominciato per primi la Padronanza. Senza chiederci mai se, in luogo della coscienza, avessero anche loro una sensibilità passibile di sofferenze, se ignorata. E io non ci ho mai fatto caso, se non la prima volta su quella spiaggia.
Schifosi padroni di uomini. Schifosi padroni di Mostri.

giovedì 20 agosto 2015

Nascondino


















Ma, per una volta, parliamo di te.

Tu eri piacente. Addirittura ti percepivi bello, in qualche occasione.
Avevi un lavoro. Dignitoso al punto di non vergognartene, quando ti davi in società. 
Tra mille interferenze avevi finalmente trovato il modo di sintonizzarti su di te. Riuscivi pian piano a capire chi eri. Ti compravi delle cose. Vestiti, mobili, macchine. Ti caratterizzavano.
Andavi in vacanza. Visitavi mostre. Cercavi i libri che ti piacevano e li leggevi, anche più volte, trovandoci sempre cose nuove. La cernita di amici validi e somiglianti ti rassicurava. Riuscivi a individuare le giuste serie tv. Ti iscrivevi in palestra e ti ci allenavi. La tua forma fisica era spesso ineccepibile. Lasciavi trapelare all'esterno pochi elementi studiati e spiazzanti, che ti conferivano un certo fascino.
Eri misurato. Camminavi lento, mettendo la giusta distanza tra un passo e l'altro. La tua schiena era dritta, il tuo capo, finalmente, alto. Guardavi le persone negli occhi, cercando di capire se i teatrini che vi si svolgevano dietro potevano interessarti. Non ti facevi problemi a rivelare i tuoi, quando ti andava, impermeabile a ogni giudizio.
Avevi trovato il giusto equilibrio fra risate e lacrime, dettate entrambe da gioie e dolori. Le piangevi o le ridevi davanti agli altri, decidendo se ti piaceva continuare a farlo a seconda delle reazioni. La tua impermeabilità alla loro pertinenza o all'impertinenza ti faceva sentire forte.
Avevi sviluppato vari modi. Dall'umorismo sgangherato a quello tagliente, dalla battuta demenziale alla più cinica. La tua varietà timbrica ti faceva spiccare. Questo, solo quando di calcare il tuo palcoscenico lo decidevi tu, regalando i tuoi biglietti a spettatori scelti.
Ti davi al gioco creativo. Giocare ti aveva interessato da subito. Nei modi e nei tempi che stabilivi. Avevi scoperto la soddisfazione di inventarne le regole. Perfezionarle. Il numero dei partecipanti si era andato restringendo, fino a farti preferire i più solitari. Costruivi un prodotto. Musicale o pittorico, scultoreo o verbale. Non aveva importanze se non contingenti. Quando ne eri soddisfatto lo ritenevi chiuso, e lo rimiravi. Ogni tanto decidevi di rivelarlo, e gli apprezzamenti eventuali non ti lasciavano indifferente. Ne ricavavi la spinta per altre creazioni in quantità esponenzialmente maggiori della produzione di partenza.
Ti pettinavi colla riga a sinistra. Una volta avevi provato a farla dall'altra parte. Per curiosità. I tuoi capelli non erano convinti, e tendevano alla ribellione. Prima di uscire tentavi abbinamenti cromaticamente convincenti, tra capi di vestiario sceltissimi. Per valorizzare l'altezza, superiore alla media, e gli altri punti di forza del tuo fisico. Ampia circonferenza toracica. Collo muscoloso. Figura slanciata. Spalle larghe. Per la maggior parte del tempo stavi lì a pensare cosa metterti.

La tua vera vita ti stava sempre ben chiusa nella testa.



Adesso non avertene, ma diciamo qualcosa di me. Giusto i tratti essenziali.

Io ero la cosa in agguato. La contrattura al collo, l'automobilista sbadato, il pedone distratto, il burocrate sgarbato, il pianoforte che cade dal quinto piano, il cancro ai polmoni, il genitore cattivo, la sua morte prima di farci pace, l'esame fallito, la pena immeritata, la multa sul parabrezza, il sacco della spazzatura che d'estate si rompe sotto, il proiettile vagante, il cedimento strutturale, il tris che non entra a Risiko, la vera e propria sciagura, l'imprevisto fastidioso.

Che emozione. Ora conto fino a cento e ti vengo a cercare.

sabato 14 marzo 2015

La Grande Esplosione
















La prima volta che provarono a uccidermi non ero che una bambina.
Più che spaventarmi del fatto in sé, m'impressionò che qualcuno avesse desiderato la mia morte, provando a realizzarla con violenza estrema.
Fu un trauma. La prima di mille altre volte, alle quali non mi abituerò mai. Se non quando nulla potrà più contare.

Il terrore spietato con cui ci fuggono.
L'accanimento pazzo con cui ci danno la caccia.
Sarebbe ridicolo, se non fosse letale.
Eppure, che io sappia, la mia tribù fra tutte è l'unica che non uccida per nutrirsi. È nostro punto d'onore non recidere vite, per alimentare la nostra.
Ci nutriamo di spirito. Ci muoviamo lentamente. Ci cibiamo della vicinanza. A sostentarci basta la prossimità delle persone che più ci piacciono.

Dopo la Grande Esplosione sviluppammo le nostre facoltà. Come tutti.
Ad alcuni crebbero zanne. Ad altri artigli. Chi sviluppò corazze, chi raggiunse assurde velocità di fuga. Aculei, pungiglioni, tentacoli ributtanti. Un numero di arti sempre nuovo. Le mutazioni variarono ogni specie vivente.
Siamo tutti dei sopravvissuti. Siamo tutti dei mal-viventi.

Non siamo stati fra i più fortunati. L'unico dono che ci è toccato in sorte è una capacità straordinaria di adattamento all'ambiente. E altre varie prerogative, buffe o penalizzanti.

I nostri maschi vivono poco. Pesanti e impacciati, sono i primi a soccombere. Il loro canto ci attira. Cantiamo anche noi; canti dolcissimi. Acuti, in giovane età. Più gravi quando siamo sessualmente mature. La sintonia ci fa accoppiare. Come tutti. Il seme che riceviamo nel primo accoppiamento sarà quello che ci feconderà per tutta la vita. Ma potremo riaccoppiarci per provare piacere.

Non siamo in grado di regolare il calore corporeo. La nostra temperatura dipende dall'ambiente circostante. Ai primi freddi entriamo in uno stato letargico, rallentando le funzioni corporee e interrompendo temporaneamente la crescita. Il nostro organismo rimane inattivo. Non si alimenta e non si muove. Trascorriamo così la maggior parte della nostra esistenza, viste le precipitazioni improvvise e le bizzarrie di un clima sempre più cagionevole. Nonostante le condizioni ostili, vogliamo solo sopravvivere. Come tutti.

Ci accusano di portare malattie. È falso. In altri luoghi forse, o in altri tempi. E comunque, mai consapevolmente. È colpa nostra se batteri e virus ci usano come veicolo? Credono forse, quelli che puntano il dito, di esserne immuni? Si sono mai chiesti a quanti esseri risultino mortali, e in modi meno inconsapevoli? Non giustifichino il loro odio con le menzogne.

Quanto a noi, mortali lo siamo solo per nostro conto, e per loro contributo.
I più ingenui provano a esorcizzarci attraverso rituali. Accendono fuochi, bruciano essenze. Adornano le loro case di piante che dovrebbero tenerci lontani. I loro scienziati deviano corsi d'acqua che ci sono necessari. Provano a eliminarci spargendo veleni, che intossicano essi stessi. Sterminano acri delle loro terre, continuando a cibarsi dei loro frutti assassini. Potremmo riderne. Sarebbero risate amare. Ma i nostri sorrisi sono spenti da tempo.
Si sono fatti più furbi, e mille volte più crudeli.

Hanno studiato sostanze nuove, innocue per la loro prole, che inibiscono lo sviluppo della nostra. Se solo vedessero lo scempio che hanno fatto. Cosa direbbero le loro madri, tenendo al seno nidiate di malformati? Hanno selezionato razze di predatori, disseminandoli nelle terre che abitano, a loro stesso rischio e pericolo. Tentano di modificarci geneticamente, nella speranza inumana di selezionare spermatozoi in grado di generare soli maschi.
Quando possono, non uccidono sul colpo. Amano bruciarci in parte, strapparci gli arti e lasciarci vivi, per farci monito di ogni sopravvissuto. Come possono convivere con loro stessi? Non si fanno orrore? Come possono allevare figli, assistere anziani, amarsi addirittura, coi segreti orribili che tanto fieramente sbandierano? Hanno perso completamente ogni coscienza? Non rispettano niente, non temono nessuno. Non potrebbero un giorno condividere lo stesso destino?
Questa è la mia speranza. Né più né meno quanto spetta a noi oggi. Qualcuno, qualcosa, che riservi loro lo stesso Fato. Senza mai arrivare a capire perché. Dover scappare, vivendo sospesi nella minaccia di mille torture. Dover sapere che si lavora alla loro estinzione. Sfacciatamente. Senza che ci si possa mai fare niente. Verrà un giorno che le mutazioni non saranno più a loro favore esclusivo. Altri organismi prevarranno. Si sveglieranno fuggendo, e dormiranno nell'incertezza del risveglio. Conosceranno l'Orrore a cui non ci si abitua. Conviveranno con l'odio spietato dell'Oppressore. Peggio: con la sua indifferenza. Non è lontano il momento in cui >|<



"T'ho presa, puttana succhiasangue", disse l'uomo in pigiama guardando la macchia spiacciacata sul quotidiano sportivo.
“Dai Nick, levati gli stivali e torna a letto. Anzi, mmm: no. Tienili.”



domenica 22 febbraio 2015

Il prigioniero


















Si rende conto all'improvviso. Staccare un frutto da un albero, inseguire una preda fino a cibarsene, non gli basta più. Guarda le cose che lo circondano come se fosse la prima volta. Se ne accorge.

Non si accontenta dei ripari naturali. Poggia le pietre una sull'altra, e quelle crollano. Le fissa con materiali pastosi, che si seccano separati dal suolo. Lui, non si secca mai. Neanche se il tetto crolla. All'inizio sono frasche e rami. Poi, pezzi di legno più piatti, incalcinati. Il vantaggio è portarsi il domicilio nei posti migliori. Vicino a un corso d'acqua, per esempio.

Escogita esche, ami, lacci e tagliole. Poi punte, lance, frecce. Le bestie catturate lo nutrono, la loro pelle lo copre dal freddo. Teme il fuoco appiccato dai fulmini. Ne intenta cause, trascendentali e terrorizzanti. Poi ne ruba un pezzo, traendone sapore e consistenza dei cibi, e calore per le sue sere.
La pelle degli animali, tenuta assieme da alcune delle sue parti, o dalle fibre intrecciate di alcune piante, serve a contenere. Il budello che avanza può legare, e se teso emette suoni. I suoni diventano altri, se ne varia la lunghezza. Più gradevoli, raddoppiandola o dimezzandola.

Formalizza tensioni, individua rilassamenti. Scopre dissonanze e consonanze. Conferisce forma alla materia che non ne ha. La riempie di liquidi, che può bere o conservare. La percuote, ed essa risuona. Ne varia il livello, che diminuito acuisce le risonanze, e le aggrava se aumentato.
E non si ferma, non si ferma. Graffia vetri, incide argille, smidolla ossa e ci soffia dentro. Appuntandosi ogni volta relazioni quantitative per le sue note. Schivando le derisioni e i tuoi bullismi secolari, incurante della polvere di gesso che gli ricopre la schiena per le stolide cancellinate con cui lo bersagli. I venti lo erodono, la pioggia lo bagna, il caldo gli secca la gola e il sole ne brucia la cute. I terremoti lo agitano, le bufere lo seppelliscono di strati ibernanti, le foreste si infiammano costringendolo, lui predatore, a scappare con le sue prede.
Ma lui suona e suona. Ogni volta che può. Ferma le circostanze e si rimette in ballo, sciamano più forsennato di prima.

Certi suoi oggetti lasciano il segno. Specie se graffiano le pareti. Lui inizia a ritrarre lo sguardo dalle cose. Ritrae profili. Ritratta le essenze. Se ne compiace.
Tenta articolazioni, studia fonemi. Arrota la lingua sul palato, soffia l'aria tendendo le labbra e stringendo i denti. Fatica e sbuffa, ma alla fine racchiude concetti. Progetta simboli che scorrono liquidi e s'imprimono sulla carta, o si scavano nella pietra. Ferma riflessioni, trasmette esperienze. Si accorge che la funzionalità dei suoi ricoveri non gli basta più. Ne progetta l'estetica, e nel frattempo la inventa. Sceglie colori e tagli, per mettersi finalmente nei suoi panni. Si costruisce un suo gusto, letteralmente.

Ma i suoi successi gli attirano invidie. La sua alacrità disturba. Il formicaio si è alzato troppo, per appartenere a progenie di naufraghi. La giusta punizione è il crollo, di speranze e fatiche. Nelle previsioni del distruttore, nulla potrà riprendersi dallo sfacelo.

Invece no. Le briciole di quella Babele arrogante si disperdono in mille colonie. Le parole diventano milioni. I pensieri, miliardi. Nessun piede ciclopico può mai pensare di schiacciarle.

E tutto questo non basta. Non basta. Il più infimo dei granelli di sabbia cela universi, intollerabili da ignorare. Gioca di lenti, calibra fuochi, accede a visioni minime e incommensurabili. Vede l'essenza nei grani della materia, e come il bambino più capriccioso gioca a spaccarla. Piange lacrime coerenti alla rottura volontaria dei suoi giocattoli subatomici, ripromettendosi di imparare dagli errori.

Lo fa danzando, cantando, raccontando. Correndo, nuotando, addirittura volando; e sempre più spesso, per il puro piacere di farlo. Il suo vortice dissennato non so davvero dove lo porterà.

Certe volte si ferma. Sta lì a ragionare. Non gli torna la morte. La sua e quella degli altri. Perfino quella delle prede che lo alimentano. Pensieri che lo muovono a discussioni e scontri. Talvolta a guerre.
Non gli torna la malattia. Il perché delle stagioni. Non il come: il perché. Il loro ripetersi. A che scopo? Perché decadere, dopo cotante crescite?
Anche il suo gioco. A che pro, scegliere colori? Curare parole? Accostare suoni? Cambiare la biancheria? Progettare comodità sempre migliori?
Il loro conseguimento. Cosa porta? Possibile che il fine sia il solo giocare? Tutto si riduce solo a questo? Un gorgo tentacolare, un gigantesco traumatico assurdo Gioco dell'Oca, in cui le strategie si riducono a fortunati tiri di dadi, e la punizione peggiore spetta a chi giunge tronfio alla vacuità dell'ultima casella?

Cade, si rialza. Inciampa, e ride del suo inciampare. Vive i suoi drammi e disegna i suoi miti, che assurgono a forze primordiali mangiando spinaci, e tornano inermi come neonati qualora prossimi alle kriptoniti. E rileggendoli ne trae diletto, se ne compiace. Costruisce e distrugge, incurante dei roghi bigotti e delle persecuzioni con cui cerchi di ostacolarne lo spirito insaziabile.

Io che osservo senza interferire sto qui. Prigioniero della vertigine.

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