Viviamo
in tempi disordinati. Compriamo razzi difettosi, per difenderci da
nemici pericolosi al punto di essere invisibili. Pubblichiamo sulle
nostre sigarette elettroniche le aberranti foto di chip bruciati o di
fusibili rotti, per dissuaderci dal suggerne surrogati poco tossici.
“Ordine
e disciplina” è spressione dagli echi sinistri, negli mmaginari
comuni. Ma questo talvolta è un punto di vista riduttivo. Se io
voglio imparare a giocare a scacchi, ho bisogno di apprendere un
sistema di regole che mi permetta di esprimermi le strategie. Devo
sapere al più presto che, se necessario, il cavallo scavalca gli
altri pezzi, com'è opportuno per un animale come lui, e lo fa trotterellando a “elle”. Non potrò pretendere di
arroccare una regina coi suoi pedoni, poiché prerogativa
rigidamente monarchica. Le regole ha senso infrangerle una
volta note, per tentare di produrre qualcosa di originale e
purtuttavia valido.
La
struttura, vincolandoti, ti dà gli spazi per esprimerti. Lungi
dall'essere castrante, questo meccanismo è invece ricco di stimoli.
Specie quando le tue strutture sei capace di creartele da te.
“Ordine
e disciplina” è poi mprescindibile quando, per esprimerti, decidi
di avvalerti di codici condivisi.
Decifrare
un codice, noto o ignoto, è un'impresa che non tenterei mai, se
perfino quel rissoso, irascibile, carissimo Umbertoeco nei suoi
saggi sterminati spesso non fa altro che sterminarmi l'entusiasmo
con cui tento di approcciargli le semiotiche.
Più
modestamente cercherò di riferirti quello che, più che lo studio,
l'esperienza di osservazione più che di vita (tanto per cambiare)
mi ha insegnato sull'interpunzione.
Se
tu ti articoli i diti sulla tastiera alfanumerica, non puoi
confondere i Duepunti col Punto&virgola, che è l'errore più
noto. O il Trattino colla Barra. Se lo fai, improvvisi in una
neolingua più orwelliana dell'originale, che invece di espanderti i
confini e le possibilità, ti relega nel detto male, nel non
espresso, nel poco chiaro. Impoverisci la mente tua e del tuo
interlocutore, e alimenti l'inquinamento e il degrado mentale,
intaccandomi l'ecosistema pezzo per pezzo; irrimediabilmente. Eccoti
quindi un bugiardino, di cui leggere attentamente le avvertenze e le
modalità d'uso, per guidarti a un uso più puntuale delle scelte
interpuntuali. Partiamo dall'inizio.
Il
Punto (“.”)
Non
è una faccina. Non cominciare. Sai bene quanto m'innervosisci,
quando tiri fuori chiavi dalle tue serrature cabalistiche. Le virgolette
servivano a creare un'oasi semiotica in un flusso semantico
precedente e sequenziale.
Il
Punto è unico nella sua essenza geometricamente adimensionale. Anche
una modica Virgola (v. prossimo paragrafo) ha estensioni lineari e
superficiali (quando addirittura spaziali, nel suo spessore
tipografico) non trascurabili.
Eppure,
in qualsivoglia sintassi, è il Punto a detenere il massimo
potere conclusivo. Esso chiude ogni discorso, lasciando a te la
scelta se farlo in modo temporaneo o definitivo. Usa un mezzo
potenzialmente devastante come il “Punto” sempre con la massima
sapevolezza.
La
Virgola (“,”)
La
virgola serve a respirare. Il cantante e lo strumentista
accorto la utilizzano come apice tra le note, per deciderne il
fraseggio. Melodie pure azzeccate diventano soffocanti, se non
inframezzate da virgole opportune. Se troppe, causeranno fenomeni di
iperventilazione, e conseguenti svenimenti.
I
Due punti (“:”)
A
che pro, incastonarti due punti in verticale nei discorsi? per
ejaculare una conclusione da un onanismo verbale precedente. Ciò che
segue ai Due punti chiosa, riassume, conferma. Oppure nega,
sorprende, stupisce. Ma sempre, ciò che lascia eruttare è l'effetto
di quanto precedentemente costruito.
Non
avvalertene, se stai per dire cose avulse dal contesto.
Il
Punto&Virgola (“;”)
Fra
i segni interpuntuali più simpatici. La perentorietà del Punto,
stemperata dallo scivolo lessicale della Virgola. Quando ne fai uso,
inchiodi su un acceleratore che, con la sua energia cinetica, rinculerà il lettore sulla
conclusione successiva. Scegli di offrire nel
discorso una pausa veloce alle macchinette del caffè, da cui non si
può che uscirne rinfrescati, e mentalmente più attenti. Pronti per
cogliere proficuamente il frutto del lavoro precedente.
Non
a caso, nelle faccine degl'imbecilli, esso semioticamente vale l'ammicco di un “occhietto”.
Il
Punto interrogativo (“?”)
Non
dubitare mai del dubbio. Esso è foriero di ogni certezza
futura.
Non
rafforzarlo soprattutto, copiancollandolo in una ripetizione selvaggia. Non esistono domande, o
richieste, vaste al punto da meritarla, poiché sono tutte
tendenti all'infinito. Sortiresti piuttosto l'effetto contrario: la
banalizzazione. Come quando leggi “Professionale” su un attrezzo
che palesemente non lo è. Anzi: la dicitura “Professionale” ne
decreterà di norma il contrario.
Molto
bello il Punto interrogativo inverso (“¿”),
di uso spagnolo. Anche in musica una tensione va preparata,
anticipandola e lasciandola fuoriuscire in fade-in
da una precedente consonanza.
Il
Punto esclamativo (“!”)
In
un discorso scritto non va mai usato. Denota quasi sempre arroganza,
quando non addirittura insicurezza sui contenuti esposti. Un uso
singolo è ammissibile solo per colorare di ronia la proposizione. Va
invece benissimo nella narrazione, nel fumetto, o in ogni caso di
sospensione dalla realtà, che infatti favorisce. Anche qui,
copiaincollaggi selvaggi e rovesciamenti ispanici provocano le
stesse, diversissime, sensazioni esposte nel paragrafo precedente.
I
Puntini di sospensione (“...”)
Non
ce n'è alcun bisogno. Mai.
Un
loro utilizzo denota vigliaccheria dialettica. Come a dire, Potrei
dire, ma per delicatezza o superiorità non dico. O anche: I miei
contenuti sono traboccanti, te ne lascio solo intuire la portata poi
basta perché sennò rimarresti devastato dal mio spessore. Non ti dico,
però; e non dicendo non ti do modo di soppesarlo, questo
mio spessore presunto e dunque presuntuoso. Il che immediatamente ne rende il fruitore
figlio di Troia per niente archeologica.
Mai
sospendere. Tenere aperto, se necessario; oppure chiudere. Buoni per
ambientazioni esclusivamente favolistiche. Un loro utilizzo
da te effettuato, assieme ai copiaincollaggi precedenti
(interrogativi e sclamativi), è il trucco più veloce per svanirmi
dalla considerazione.
Le
Virgolette
Sintomo
inequivocabile di definizione, citazione o discorso diretto.
Disegnamone in aria il meno possibile, se non vogliamo restare
catturati in un ruolo di scimmia imitatrice di chissà quale comico televisivo
antesignano.
Scolastiche
sono quelle Basse (“<< >>”), d'uso comune i doppi
apici (“ “” ”), indicanti spesso un flusso di pensieri in
contesti narrativi quelli singoli (“ ' ' ”).
Le
Parentesi
Con la loro presenza, ti ricordano che al mondo vi sono infiniti
livelli possibili. Che individuano una dinamica altrettanto infinita.
Tu puoi prestare attenzione a quello da cui vieni e a cui tornerai,
mentre loro ti hanno appena aperto una botola sotto i piè.
Permettono
una funzione di supervisione del testo presso il lettore.
Possono
essere tonde (“()”), quadre (“[]”) o graffe (“{}”), e
acquisire vari gradi di priorità in contesti meramente matematici.
In quelli narrativi, la presenza delle quadre indica rimozioni
testuali, qualora racchiuda puntini di sospensione nel loro unico uso giustificabile.
Il
Trattino (“-”)
Trae
dal suo contesto aritmetico una valenza sottrattiva, richiamando a sé
l'attenzione dal contesto precedente. Ha una funzione parentetica
meno sospensiva delle Parentesi. Chiede esplicitamente la tua
attenzione, senza distoglierti pienamente. In quanto tale, è un
ammicco appena meno appagante del Punto&Virgola. Alle volte ti
permette, se lo vuoi, di sillabare.
La
Barra (“/”)
Anche
qui, come nel Trattino, importiamo un significante aritmetico per
rendere l'idea di divisione tra termini o concetti. Equivale per
l'appunto alla congiunzione “o”, “oppure”. Costituisce
disgiunzione inclusiva (in latino vel,
XOR in algebra
booleana), a differenza del trattino (aut e
OR negli stessi
contesti) che disgiunge più esclusivo, più radical,
più chic.
Quindi
non dire che non ti ho avvertito. Apprezzami il lavoro fatto, che per
quanto modico è notevole quando ne sia autore un pigro. Ora, se a me
ti vuoi rivolgere, accetta almeno l'uso che dei segni d'interpunzione
io ti propongo. Non farmi respirare convulso, con il tuo virgolare
forsennato o assente. Non pretendermi reazioni emotive, coi tuoi
perentori esclamativi o interrogativi insulsi.
Oppure
ammetti che io, sui tuoi modi e la tua indole, mi faccia delle idee
conseguenti e mie.