domenica 22 febbraio 2015

Il prigioniero


















Si rende conto all'improvviso. Staccare un frutto da un albero, inseguire una preda fino a cibarsene, non gli basta più. Guarda le cose che lo circondano come se fosse la prima volta. Se ne accorge.

Non si accontenta dei ripari naturali. Poggia le pietre una sull'altra, e quelle crollano. Le fissa con materiali pastosi, che si seccano separati dal suolo. Lui, non si secca mai. Neanche se il tetto crolla. All'inizio sono frasche e rami. Poi, pezzi di legno più piatti, incalcinati. Il vantaggio è portarsi il domicilio nei posti migliori. Vicino a un corso d'acqua, per esempio.

Escogita esche, ami, lacci e tagliole. Poi punte, lance, frecce. Le bestie catturate lo nutrono, la loro pelle lo copre dal freddo. Teme il fuoco appiccato dai fulmini. Ne intenta cause, trascendentali e terrorizzanti. Poi ne ruba un pezzo, traendone sapore e consistenza dei cibi, e calore per le sue sere.
La pelle degli animali, tenuta assieme da alcune delle sue parti, o dalle fibre intrecciate di alcune piante, serve a contenere. Il budello che avanza può legare, e se teso emette suoni. I suoni diventano altri, se ne varia la lunghezza. Più gradevoli, raddoppiandola o dimezzandola.

Formalizza tensioni, individua rilassamenti. Scopre dissonanze e consonanze. Conferisce forma alla materia che non ne ha. La riempie di liquidi, che può bere o conservare. La percuote, ed essa risuona. Ne varia il livello, che diminuito acuisce le risonanze, e le aggrava se aumentato.
E non si ferma, non si ferma. Graffia vetri, incide argille, smidolla ossa e ci soffia dentro. Appuntandosi ogni volta relazioni quantitative per le sue note. Schivando le derisioni e i tuoi bullismi secolari, incurante della polvere di gesso che gli ricopre la schiena per le stolide cancellinate con cui lo bersagli. I venti lo erodono, la pioggia lo bagna, il caldo gli secca la gola e il sole ne brucia la cute. I terremoti lo agitano, le bufere lo seppelliscono di strati ibernanti, le foreste si infiammano costringendolo, lui predatore, a scappare con le sue prede.
Ma lui suona e suona. Ogni volta che può. Ferma le circostanze e si rimette in ballo, sciamano più forsennato di prima.

Certi suoi oggetti lasciano il segno. Specie se graffiano le pareti. Lui inizia a ritrarre lo sguardo dalle cose. Ritrae profili. Ritratta le essenze. Se ne compiace.
Tenta articolazioni, studia fonemi. Arrota la lingua sul palato, soffia l'aria tendendo le labbra e stringendo i denti. Fatica e sbuffa, ma alla fine racchiude concetti. Progetta simboli che scorrono liquidi e s'imprimono sulla carta, o si scavano nella pietra. Ferma riflessioni, trasmette esperienze. Si accorge che la funzionalità dei suoi ricoveri non gli basta più. Ne progetta l'estetica, e nel frattempo la inventa. Sceglie colori e tagli, per mettersi finalmente nei suoi panni. Si costruisce un suo gusto, letteralmente.

Ma i suoi successi gli attirano invidie. La sua alacrità disturba. Il formicaio si è alzato troppo, per appartenere a progenie di naufraghi. La giusta punizione è il crollo, di speranze e fatiche. Nelle previsioni del distruttore, nulla potrà riprendersi dallo sfacelo.

Invece no. Le briciole di quella Babele arrogante si disperdono in mille colonie. Le parole diventano milioni. I pensieri, miliardi. Nessun piede ciclopico può mai pensare di schiacciarle.

E tutto questo non basta. Non basta. Il più infimo dei granelli di sabbia cela universi, intollerabili da ignorare. Gioca di lenti, calibra fuochi, accede a visioni minime e incommensurabili. Vede l'essenza nei grani della materia, e come il bambino più capriccioso gioca a spaccarla. Piange lacrime coerenti alla rottura volontaria dei suoi giocattoli subatomici, ripromettendosi di imparare dagli errori.

Lo fa danzando, cantando, raccontando. Correndo, nuotando, addirittura volando; e sempre più spesso, per il puro piacere di farlo. Il suo vortice dissennato non so davvero dove lo porterà.

Certe volte si ferma. Sta lì a ragionare. Non gli torna la morte. La sua e quella degli altri. Perfino quella delle prede che lo alimentano. Pensieri che lo muovono a discussioni e scontri. Talvolta a guerre.
Non gli torna la malattia. Il perché delle stagioni. Non il come: il perché. Il loro ripetersi. A che scopo? Perché decadere, dopo cotante crescite?
Anche il suo gioco. A che pro, scegliere colori? Curare parole? Accostare suoni? Cambiare la biancheria? Progettare comodità sempre migliori?
Il loro conseguimento. Cosa porta? Possibile che il fine sia il solo giocare? Tutto si riduce solo a questo? Un gorgo tentacolare, un gigantesco traumatico assurdo Gioco dell'Oca, in cui le strategie si riducono a fortunati tiri di dadi, e la punizione peggiore spetta a chi giunge tronfio alla vacuità dell'ultima casella?

Cade, si rialza. Inciampa, e ride del suo inciampare. Vive i suoi drammi e disegna i suoi miti, che assurgono a forze primordiali mangiando spinaci, e tornano inermi come neonati qualora prossimi alle kriptoniti. E rileggendoli ne trae diletto, se ne compiace. Costruisce e distrugge, incurante dei roghi bigotti e delle persecuzioni con cui cerchi di ostacolarne lo spirito insaziabile.

Io che osservo senza interferire sto qui. Prigioniero della vertigine.

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